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Kid Cudi – Passion, Pain & Demon Slayin’

2016 - Republic Records
hip-hop / r&b

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Tracklist

01. Frequency
02. Swim in the Light
03. Releaser
04. By Design (feat. Andre Benjamin)
05. All In
06. ILLusions
07. Rose Golden (feat. Willow Smith)
08. Baptized in Fire (feat. Travis Scott)
09. Flight at First Sight / Advanced (feat. Pharrell Williams)
10. Does It
11. Dance 4 Eternity
12. Distant Fantasies
13. Wounds
14. Mature Nature
15. Kitchen
16. Cosmic Warrior
17. The Guide (feat. Andre Benjamin)
18. The Commander
19. Surfin’ (feat. Pharell Williams)


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Essendo strettamente legato a un nome ingombrante come quello di Kanye West, è molto probabile che il percorso artistico di Kid Cudi, agli affezionati del rap più radicale risulti alquanto indigesto. Coautore di alcune hit seminali per la carriera del suo più affermato mentore, una su tutte “Heartless” che, piaccia o meno (e a me non piace), sul finire degli anni ’00, diede una decisa sterzata alle tendenze di un mercato arenatosi nella riproposizione di stilemi abusati e sempre identici a sé stessi. Quanto al fatto che questa deriva verso velleità pop ed elettroniche, abbia decretato il proverbiale passaggio dalla padella nella brace, se ne può certamente discutere.

La commistione, non sempre felice, tra barocco e spartano, colto (termine da prendere con le pinze) e ignorante, ricercatezza e casualità, divenne presto il marchio di fabbrica di Mr. West. Conseguentemente, di tutti gli affiliati alla sua label GOOD Music tra i quali Cudi, è riuscito ben presto a ritagliarsi una posizione di assoluto rilievo. Fedele all’estetica cui si è poc’anzi accennato, ha consolidato la sua permanenza sotto i riflettori collaborando con quelli che probabilmente, durante il biennio 2009-2010, sono stati i confezionatori di hit più gettonati dal pubblico di tutto il globo: Lady Gaga e David Guetta. Tanto basterebbe per relegarlo al ruolo di imbucato nel jet set musicale, con poco o niente da dire.

Il suo esordio sulla lunga distanza “Man on the Moon”, datato 2009, mostra un artista ancora acerbo e intento a ricalcare fin troppo fedelmente le orme di colui che ha costituito una decisiva spinta per l’inizio della sua carriera. Impressioni che iniziano però a vacillare l’anno seguente, con l’uscita di “Man on the Moon II”, portatore di atmosfere decisamente più scure. Spesso e volentieri autore dei tappeti sonori su cui alterna rap e cantati (va detto: non sempre convincenti, anzi), nonché regista dei propri video, inizia a dare segnali tangibili di elasticità mentale e profonda versatilità, licenziando nel 2012 il progetto WZRD, realizzato a quattro mani col producer Dot Da Genius e contraddistinto da forti tinte rock. Lavoro coraggioso e difficilmente etichettabile, non riceve infatti responsi molto positivi da parte della critica, né si rivela particolarmente fortunato dal punto di vista commerciale.

Non così il suo terzo album solista “Indicud”, uscito l’anno dopo e contenente singoli come “King Wizard” e “Just Like I Am”, tentativi finalmente solidi di coniugazione tra l’esigenza professionale di essere catchy, e quella artistica di dare spessore alle proprie produzioni. Purtroppo per lui, l’approdo a un discorso musicale più consapevole, corrisponderà con l’apice di alcuni problemi personali, le cui ripercussioni si protrarranno fino a oggi. Segnato da un’invasiva forma di depressione, aggravata dall’abuso di farmaci, sarà costretto a più periodi di permanenza in centri di riabilitazione. Avvenimenti che tuttavia, non gli impediranno di dare alle stampe altri due album nei successivi due anni: “Satellite Flight” e “Sendin’ Bullet 2 Heaven”. Orientato più verso l’RnB e i dancefloor il primo, decisamente più sperimentale e oscuro il secondo. Entrambi mostrano al pubblico un giovane uomo fragile e tormentato, che cerca di esorcizzare i propri demoni attraverso la propria musica. Situazione abbastanza tipica, risultati abbastanza alterni. Perché a dispetto di alcuni guizzi pregevolissimi, l’impressione globale lasciata da entrambe le uscite, è che a Cudi manchi ancora quel qualcosa in più, quell’intuizione fondamentale per giungere al pieno compimento del proprio potenziale.

Obiettivo, diciamolo subito, completamente mancato da quest’ultimo “Passion, Pain e Demon Slayin’”. Il quale al contrario, spiace constatarlo, rappresenta invece diversi passi indietro rispetto al cammino di originalità ed eclettismo intrapreso anni addietro, seppur come vedremo, elementi interessanti non manchino neanche stavolta. A partire dal primo singolo e traccia d’apertura “Frequency”, caratterizzato dal ritmo accattivante di una produzione tendente decisamente al trip hop, cavalcata da una performance vocale sospesa tra canto sommesso e rap. Forse non eccelsa, ma fa muovere. Discorso inverso invece per il secondo singolo “Baptized in Fire”, duetto col trapper Travis Scott che risulta nel complesso piuttosto anonimo. Particolarmente efficaci invece gli interventi di Andre 3000, qui accreditato col vero cognome Benjamin, sul flirt con la dancehall di “By Design” ma soprattutto su “The Guide”, maiuscola prova di flow fornita su una produzione alienante e sincopata. Decisamente deludente l’apporto di Pharrell Williams su “Flight at First Sight/Advanced” e la conclusiva “Surfin’”, ballabili dozzinali e fuori luogo in un album in cui è già così arduo individuare gli episodi meglio riusciti.

Quasi 90 minuti di musica, ripartiti in 19 tracce e 4 atti, nell’era del dito pronto a cambiare pezzo al trentesimo secondo, sono un azzardo. Specie se l’atmosfera è così uniformemente ovattata e sonnacchiosa. Ad ogni modo, tracce come “Swim in the Light”, “All In”, “ILLusions”, “Wounds” e “Cosmic Warrior” non invogliano minimamente a intraprendere la ricerca, traducendosi nella solita lagna con l’autotune, uguale a mille altre che infestano le chart americane. Così come non lo fanno “Dance 4 Eternity”, che dovrebbe fare ballare e invece fa dormire, né “Rose Golden”, sostanzialmente cacofonica. Su tanti inutili riempitivi, si staglia maestosa, sentita, coinvolgente “Releaser”, che potremmo definire come “futuristico RnB meditativo”. Momento di vera catarsi e bravura sia in cabina di regia, sia a livello di performance vocale.

Troppo, troppo poco in un’ora e mezza che a parte questo exploit clamoroso, regala solo qualche compitino ben svolto a livello di rap (poco) e beatmaking. Se il cattivo stato psicofisico dell’autore abbia influito negativamente nell’operare determinate scelte, non ci è dato saperlo. Fatto sta che il disco nel complesso, risulta pesante, noioso e a tratti anche decisamente irritante. Peccato perché quel poco di sapiente artigianato che emerge nell’uniformità generale, lascerebbe presagire che i mezzi per fare emergere tutte le buone idee latenti, ci siano tutti.

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