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“The Fragile”, la spirale ascendente dei Nine Inch Nails

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Spiegare a parole cos’è stato per me l’ascolto di “The Fragile”, acquistato circa un paio di anni dopo la sua uscita effettiva – nel 2001 – non è cosa semplice. Così come non è facile tentare di quantificare l’immensa influenza che questo immenso album ha lasciato in un mondo, quello della musica “pop” – ragazzi cari, i singoli di questo doppio lavoro sono andati in heavy rotation su MTV così a lungo che sono arrivati a me, oggi, anzitutto, una cosa simile non potrebbe accadere poiché tutto è fatto per essere dimenticato nel giro di un paio di post, e, in secondo luogo, tutto ciò che finiva là sopra diventava popular, e viva “dio” -, che oggi consacra Trent Reznor come uno dei migliori compositori a cavallo degli anni ’90 e nuovi anni zero, tra Oscar e fiumi di persone che ancora si riversano dinnanzi ai palchi calcati dai suoi Nine Inch Nails, che siano in attesa dei vecchi cavalli di battaglia della mutante creatura industriale in questione o che sbavino per i nuovi brani scritti e suonati dal Nostro, poco importa.

Il miracolo compiuto da realtà come Tool e NIN è impossibile da replicare: rendere appetibili per il grande pubblico composizioni di indubbia pesantezza nonché ricercatezza. “The Fragile” fu proprio questo: un doppio album profondo come l’oceano in un mondo plastificato che stava svoltando nella bieca mercificazione anche del più piccolo e fragile (pun intended) orpello in cui la moda dell’obliquo rendeva difficoltoso suddividere il “buono” dal “cattivo”.

Spiegare, invece, cosa fu “The Fragile” per Trent Reznor è leggermente più “facile”. Lui stesso non usò mezzi termini in un’intervista proprio per MTV: “Ero davvero infelice. Ero disilluso da moltissime cose. Non mi fidavo di nessuno e non ero sicuro di cosa volevo dire, musicalmente parlando. Così non l’ho fatto.” Non l’ha fatto? Eppure sembra davvero il contrario. Il disco è un fiume emotivo difficile da “replicare” o contenere. Reznor infatti non riuscirà mai a bissare la bellezza di questo vero e proprio “work of art” (sebbene lui non userebbe la medesima definizione), destreggiandosi comunque tra ottime prove in studio, favolosi live e colonne sonore da manuale.

Mentre dilagava la febbre del nu-metal – che mostrava già il fianco per correre incontro ad un pubblico modaiolo e incapace di provare alcunché – Reznor metteva a nudo un’anima e un corpo tanto tormentati quanto ricchi di sfumature, tanto da essere costretto a riversarli in ben due dischetti. Anche Rick Rubin, arcinoto guru del banco mix, a cui si rivolge Reznor per migliorare sé stesso come produttore (dopo l’ostica esperienza con Manson e soci) si rende conto della tremenda situazione in cui versava il Nostro arrivando persino a consigliargli di prendersi un periodo di vacanza. Il che è tutto dire, essendo Rubin abituato a lavorare con degradati d’ogni sorta e speme.

Altra intervista, stesso punto di vista, questa volta con una sorta di happy ending: “Quando ho cominciato a lavorare a questo disco mi sentivo terribilmente solo, come fossi l’unica persona rimasta sulla Terra, incastrata in uno studio di registrazione. Ma ora sto meglio, posso guardarmi allo specchio e apprezzare ciò che vedo. C’è ancora un certo senso di solitudine e una mancanza di completezza, ma non voglio più essere solo, sto imparando a conoscere me stesso. Sono un tipo schivo. La gente mi spaventa così tento di nascondermi. I Nine Inch Nails sono per lo più musica, non ci puoi vedere molto altro. Preferisco che la musica parli da sé. Essere una celebrità e vedere la mia faccia ovunque non è mai stato il punto focale della cosa. Me ne sono fatto una ragione, ma ciò che mi interessa è l’effetto che fa ciò che creo. Non faccio musica per essere famoso.” Un effetto collaterale che però Reznor sembra abbracciare bene, se non benissimo, e questi ultimi dieci anni ne sono la prova definitiva, andando a cozzare con il messaggio contenuto proprio in “Starfuckers Inc.”.

In un’altra occasione, questa volta a colloquio Kerrang!, il ragazzo prodigio della Pennsylvania ha modo di andare più a fondo a ciò che si prova a stare in studio per un simile progetto: “Ci sono dei momenti in cui l’atmosfera è godibile. In tutti i dischi che ho fatto, ma con “The Fragile” in particolare, il team con cui ho lavorato era il migliore e mi supportava al meglio. Ma sapevamo che saremmo stati in studio per un periodo molto lungo, e sapevamo che da “migliori” le cose potevano diventare “peggiori”.

“È fastidioso e frustrante. Ma poi tutto torna a posto e tutti quanti sono nuovamente eccitati. È come andare sulle montagne russe e il peso ricadeva tutto sulle mie spalle. Non vi piacerebbe essere in studio quando sto registrando le parti vocali. Non è mai il momento per starmi attorno o avere a che fare con me. Finito il mix, invece, divento un tipo mite. Ma quando registro le voce ogni inadeguatezza è davanti agli occhi di tutti, può essere criticata, persino da me stesso. C’è una pletora di emozioni che serpeggiano quando sei in studio. […] Sto ancora lavorando su come esprimermi in maniera differente e migliore.

The Fragile”, un album che ha impiegato due anni per essere realizzato, quando uscì schizzò subito al primo posto della Billboard 200 con 229.000 copie vendute, quasi del tutto inspiegabilmente essendo tra i dischi più difficili da ascoltare da cima a fondo. Musica e parole viaggiano su rotaie che si incrociano di continuo, e i suoni che si mischiano tra di loro creano un senso di vertigine incontrollata.

Forse proprio le parti vocali sono utili a diluire uno tsunami sonoro che non avrebbe sfigurato in un album dei Coil, ma solo finché non si leggono i testi di The Wretched o We’re In This Together. Alan Moulder, co-produttore dell’album, ebbe a dire: “La regola non scritta era ‘proviamo tutto’. Abbiamo passato un giorno intero a radunare un’enorme quantità di scatole di cartone e una barra di metallo. Le abbiamo microfonate e Trent le ha suonate. Il “marching sound” che sentite su Pilgrimage lo abbiamo ottenuto ficcando roba in una scatola e scuotendola.” Un mostro industriale figlio delle contaminazioni extra-musicali di Einstürzende Neubauten e Throbbing Gristle, ma pronto per essere fagocitato da un pubblico estremamente più ampio di quello attirato dai tedeschi e dagli inglesi.

Il frontman dei Nine Inch Nails non sa spiegarsi il perché di questa situazione: “Questo disco è strano perché quando è uscito sembrava che tutti lo odiassero, e di conseguenza odiassero me, e ora sembra che sia il disco preferito di quasi tutti i nostri fan. Col senno di poi penso che avrei dovuto dividerlo in due realtà distinte, un po’ come hanno fatto i Radiohead con “Kid A” e “Amnesiac”, registrati in una sola sessione ma divisi in due parti decisamente più digeribili. Hey, è proprio questo che sono quei due album.” Ma a pagare fu proprio questo immettere sul mercato – un mercato che stava già cominciando a restringere contenuti e durata degli stessi – un album enorme, da ogni punto di vista, e “pericoloso” in un momento di plastificazione generale della musica, imperfetto e oltremodo sporco.

Reznor ha ammesso che il punto chiave del disco sono le imperfezioni, nonostante suoni pressoché perfetto, misurato, dosato. Non si sarebbe avvalso, altrimenti, della collaborazione di Moulder e della sua esperienza al fianco di Depeche Mode e Smashing Pumpkins, oltre ad altri due nomi di incredibile rilievo come quelli di Bob Ezrin, l’uomo dietro il suono di “The Wall” dei Pink Floyd, e nientemeno che Dr. Dre, il primo assistente del sequencing dell’album, il secondo assistente al mix.

Più si scava nell’imperfetto e più si torna ad una crisalide di dimensioni gargantuesche, nei solchi di un inferno privato gettato in pasto ad un plateatico famelico, le cui aspettative bruciavano la pelle di Trent, lungi da lui dal volerlo accontentare. Come un cane che rincorre le auto, la corsa verso qualcosa di intaccabile è difficile, e nulla può portarla a termine, se non lavorare ancora e ancora su un’opera magna che ha sconfitto le barriere del tempo, che ha trasformato una spirale discendente e che sembrava non aver fine, in una corrente ascendente, verso un cielo terso e finalmente tranquillo in cui riposarsi. Dopo gli abusi, dopo le delusioni (sue e altrui) dopo le difficoltà e la follia sfiorata per un soffio. Respirare a pieni polmoni.

Mi concedo una considerazione finale per chiudere un cerchio che si è aperto, per molti, nel 1999: se riesci a trasmettere anche senza parole tutto questo disagio, questa rabbia, questa voglia di diventare immortale scansando tutte le pallottole che vengono scaricate contro chi desidera esserlo a costo della propria anima sei chiaramente meritevole di essere ricordato negli annali della musica che ha cambiato tutto. Ci risentiamo tra vent’anni quando “The Fragile” sarà ancora il disco pazzesco che è sempre stato e sempre sarà.

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