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“The Joshua Tree”, l’America negli occhi degli U2

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È il 1985, poco meno di un anno dall’uscita di “The Unforgettable Fire”, l’album che lancia gli U2 nella scia dei più grandi, li toglie dalle strade cupe e malinconiche della loro Dublino e li aggancia ai numeri che contano, quelli delle classifiche di vendita di tutto il mondo, che li vedono per la prima volta comparire ai piani più alti.

Rolling Stone azzarda e li definisce già “la miglior rock band degli anni ’80”. Ed è singolare che il successo globale arrivi nel momento esatto in cui la band irlandese sceglie un approccio più introspettivo e spirituale, abbandonando di fatto la descrizione fin qui rabbiosa, istintiva ed inquietante del mondo esteriore. Bono e soci ripartono da zero e dimostrano uno spirito tra i più recettivi e profondi della scena, riuscendo a far proprie tutte le migliori tendenze musicali del passato e della contemporaneità: in “The Unforgettable Fire” si mischiano così la primitiva immediatezza del rock, la potenza comunicativa del blues, ma anche le semiotiche più sofisticate ed eleganti del progressive e dell’avanguardia, sulla base di una struttura che fa delle chitarre wave di The Edge il perfetto contraltare per l’indiscussa vocalità di Bono.

Si tratta però di un successo non ancora compiuto a pieno: nonostante sia ormai conosciuta e apprezzata in tutto il mondo, la missione della band irlandese è quella di creare un linguaggio musicale che sia realmente universale e trascinante. L’esperienza del Live Aid, il tour “A Conspiracy Of Hope” per Amnesty International, il supporto a Greenpeace, i tanti viaggi di Bono tra Stati Uniti, Africa e Centro-America conferiscono agli U2 la piena consapevolezza delle responsabilità di una celebrità sempre più ampia e fanno da sfondo alla scrittura di quello che, già nelle intenzioni, voleva essere una pietra miliare del rock mondiale. Con The Joshua Tree, che esce il 9 marzo 1987 su Island Records, gli U2 sognano una dimensione artistica nuova, una via intermedia che sappia unire la tradizione irlandese all’enormità delle possibilità americane. Il titolo, che in origine doveva essere “Desert Songs”, si rifà infatti all’albero di Giosuè, un cactus gigante che cresce nella Death Valley, ribattezzato così dai primi mormoni giunti in America. Nella foto di copertina – realizzata da Anton Corbijn totalmente in bianco e nero, così come sulle stesse tonalità si sviluppa il booklet originale – gli U2 si fanno ritrarre senza particolare espressività lungo la Route 190, che in California costeggia proprio la Death Valley. È evidente la portata spirituale di tale scelta: gli U2 intraprendono un pellegrinaggio trionfale verso la Terra Promessa del rock, ne captano l’immensa energia dandone una forma unica, sintesi vincente di stupore giovanile e consapevolezza adulta.

Di nuovo, dopo il successo di The Unforgettable Fire, gli U2 per il loro quinto album si affidano alle mani sapienti di Brian Eno, che sa cogliere e indirizzare al meglio le intenzioni e la voglia di cambiamento di Bono e compagni. Il produttore britannico, in realtà, non ha però un compito semplice: la stesura di “The Joshua Tree” muove i suoi primi complicati passi sulla strada segnata da una sorta di diverbio artistico tra Bono e The Edge, con il primo – ispirato anche da un esaltante incontro con Bob Dylan – spinto da un’irrefrenabile voglia di America e il secondo fermamente deciso a rinsaldare gli umori wave che fin qui avevano portato gli U2 ad assaggiare un successo di portata planetaria. Brian Eno, sempre accompagnato dal fido Daniel Lanois, sa mitigare gli attriti, e anzi li sfrutta e li valorizza al massimo. Gli afflati tecnologici di un genio della materia come Eno si uniscono al fluire di un impianto sonoro mai così ispirato e che sfrutta al massimo la vocalità di Bono, giunta al suo apice. Il risultato è semplicemente magico: nel decennio che più di tutti fa del disimpegno la propria bandiera, quello degli U2 è invece un rock sperimentale, strutturato e calibrato al meglio per poter trasmettere un ventaglio di emozioni complesso, fatto di rabbia, stupore, orgoglio e coscienza di sè e del proprio ruolo.

Registrato a metà tra la Danesmoate House – una villa vittoriana a sud di Dublino – e i Sun Studios di Memphis, il disco comincia come meglio non si può, con un trittico impressionante di hit destinate a diventare epica musicale. Where The Streets Have No Name, con la sua intro per la quale – racconta The Edge – furono dedicate più della metà delle sessioni di registrazione dell’intero album – nasce dopo un viaggio di Bono con la moglie in Etiopia ed è fondamentalmente un inno all’uguaglianza. È lo stesso Bono a spiegarne il titolo in un’intervista, raccontando come a Belfast, a seconda della zona e della via in cui abita, è facile capire se una persona sia ricca o meno, o perfino quale religione professi. Divenuta estremamente celebre anche per via di quella leggendaria esibizione a sorpresa sul tetto del Republic Liquor Store di Los Angeles, Where The Streets Have No Name mette in evidenza tutto ciò che di eccellente gli U2 potessero offrire allo zenith della propria carriera: la performance vocale di Bono rasenta la perfezione, la chitarra di The Edge con il suo delay d’ordinanza scandisce il tempo accompagnata dalla batteria marziale e incisiva di Larry Mullen. Tutto suona naturale nel racconto ideale e coinvolgente di una realtà dove le strade siano sinonimo di inclusione sociale.

Le successive I Still Haven’t Found What I’m Looking For e With Or Without You affrontano il tema della fede da due prospettive musicali radicalmente diverse: la prima è un gospel-rock su cui si arrampicano con sorprendente agilità alcune riflessioni di stampo biblico (I have spoke with the tongue of angels / I have held the hand of a devil / It was one empty night / I was cold as a stone / But I still haven’t found / What I’m looking for), la seconda è una ballata micidiale, forse il brano più famoso di tutta la carriera degli U2, in cui una profonda disquisizione sulla fede religiosa si nasconde nella cronaca passionale e quanto mai terrena della fine di un amore. Particolare menzione qui per l’infinite guitar di The Edge, un vero e proprio prototipo creato da Micheal Brook per ottenere un sustain regolabile a piacimento fino, appunto, a toccare quasi l’infinito.

Bullet The Blue Sky è un brano rabbioso, dal sapore puramente post-punk, vero e proprio grido di denuncia (quell’“Outside It’s America”, nella sua dilaniante semplicità è uno dei versi più significativi dell’album) contro le politiche imperialiste degli Stati Uniti volute da Reagan in un Centro America martoriato dall’embargo economico. Si chiude così, nel segno dell’impegno politico, una prima parte in cui si mostrano e si dosano al meglio tutti quegli elementi che poi verranno sempre più esasperati nelle produzioni future.

Nella seconda parte, più lunga e stratificata, trovano posto episodi non certo tra i più celebri, ma che sicuramente risultano essere tra le più audaci e riuscite dimostrazioni dell’enorme talento degli U2. È qui che si compie a pieno quella esplorazione musicale che nella mente di Bono doveva essere il motore di un disco unico: la musica si fa geografia, letteratura particolare di un viaggio che è al tempo stesso ideale e concreto, scavalca confini terreni e immaginifici e si presta alla descrizione di territori sterminati e inusuali. Sono proprio questi ultimi a dominare l’opera, lasciando a storie e persone il compito di colorare al meglio lo sfondo. Come nel blues minimale e acustico di Running To Stand Still che, lavorando progressivamente di privazioni, si rosicchia piano piano da sé, mettendo in musica la desolazione aliena delle Seven Towers di Dublino e, in un triste e riuscito parallelo, l’animo degli eroinomani che le popolavano e di cui Bono racconta le vicende con un’altra prestazione impeccabile, seppur stavolta su ranghi più delicati e contenuti.

L’influenza americana raggiunge il culmine in Trip Through Your Wires, country-blues scosso da un’armonica e dal racconto di una ricerca della felicità tanto naturale quanto malata, e soprattutto nell’energica In God’s Country, addirittura precursore di certo indie-rock che comparirà nel decennio successivo. Il brano mette in scena da un lato la devastante espressività del deserto americano, che tanto ha colpito l’immaginario di Bono, dall’altro i lati più paradossali e foschi di quel sogno americano che troppo spesso rimane tale. 

Tra gli episodi più sperimentali ci sono due ballate in bilico fra il country e il post-punk: Red Hill Mining Town è una pioggia di elettricità nervosa, un urlo di rabbia per i minatori britannici, una ricerca costante di equilibrio tra reazione e rassegnazione; la conclusiva Mother Of Disappeared, invece, in memora dei desaparecidos argentini, è una angosciante e lenta cavalcata nella quale fanno comparsa i synth di Brian Eno, ma anche inserti rumoristici e field recordings, il tutto guidato da un The Edge in gran spolvero che, più che una malinconica chitarra acustica, sembra suonare un vero e proprio fascio di nervi. 

Prima, One Three Hill, altra ballata quasi springsteeniana che prende a prestito la terra natia dei maori neozelandesi per un passionale commiato al roadie Greg Carroll, morto in un incidente stradale a Dublino, fa da apripista ad uno dei momenti più alti di tutto il lavoro. Exit nasce quasi per caso da una jam session ed è una sorta di riproposizione musicale del romanzo di Norman Mailer The Executioner’s Song. Bono ci porta nella mente di un serial-killer mosso da deviati principi religiosi, recitandone pensieri e tormenti in un crescendo di tensione e disperazione. È una danza lugubre, in cui il tempo del disagio è dettato dal basso claustrofobico di Clayton, che ricrea e attualizza le atmosfere compresse dei Joy Division e le mette al servizio di uno psicodramma dai tratti geniali e sorprendenti.

The Joshua Tree” raggiungerà subito i vertici di tutte le classifiche -comprese quelle americane, fin qui solo sfiorate dagli U2 con i precedenti lavori-, sarà premiato ai Grammy Awards come album dell’anno e sfocerà in un imponente tour mondiale che radunerà migliaia di persone ad ogni live e contribuirà a creare il vero e proprio mito degli U2, il cui sound diventerà subito e senza troppi giri di parole lo standard rock di tutto il decennio. Ma al di là dei numeri, del fenomeno sociale e di costume che, soprattutto nella figura di Bono, avrebbe caratterizzato e condizionato da lì a venire ogni nuovo lavoro della band (a partire dal successivo narcisistico e inutile Rattle And Hum), “The Joshua Tree” è passato alla storia come uno dei dischi che meglio ha saputo raccontare l’America, i suoi paesaggi sterminati, le sue infinite possibilità e le sue altrettante contraddizioni.

Oggi l’albero di Joshua giace a terra disteso nella Death Valley, morto nel 2000, ed è divenuto meta di pellegrinaggio di milioni di fans che ai suoi piedi hanno deposto oggetti e cimeli di ogni genere a testimonianza dell’amore e della passione per la band europea che forse più di tutte ha saputo travalicare i confini e rendersi realmente universale. Pensate a tutto questo quando vi trovate di fronte agli U2 di oggi, star megalomani, gonfie e ingiallite che 30 anni fa hanno saputo regalarci questo gioiello di impareggiabile sensibilità.

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