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Wear Your Wounds – WYW

2017 - Deathwish Inc.
folk / songwriting / post punk

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Tracklist

1. Wear Your Wounds
2. Giving Up
3. Iron Rose
4. Hard Road To Heaven
5. Best Cry Of Your Life
6. Breaking Point
7. Shine
8. Fog
9. Heavy Blood
10. Goodbye Old Friend


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Wear Your Wounds è un nome pesante da dare ad un progetto. Vestire le proprie ferite come concetto ultimo di delicatezza espressiva, di dolore passato che risorge ad ogni passaggio davanti allo specchio, di consapevolezza terminale. Jacob Bannon esce dal ventre d’acciaio dei Converge così poco che viene difficile immaginarlo come entità a sé stante.

In passato l’ugola magistrale dell’hardcore di scuola “futurista” ha messo piede nel mondo esterno all’interno di realtà di diverso tipo (pensate agli Irons o ai Supermachiner), oltre ad aver prestato i pennelli per i più disparati artwork ma mai si era spinto a mettere a nudo il proprio essere più intimista come ora. Il progetto si può dire, a tutti gli effetti, il primo vero solista di Bannon, pur accompagnato nell’avventura da esponenti di alto calibro della scena -core tutta: dal solito immancabile Kurt Ballou a Mike McKenzie dei The Red Chords coadiuvati dall’ex sei corde degli Hatebreed Sean Martin e Chris Maggio, batterista in arme assieme a Coliseum e Trap Them. Una truppa di spessore per un lavoro ad altissima intensità.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a svariate dichiarazioni d’amore verso gli anni ’80 da parte di parecchi musicisti militanti in band che di eighties non avevano un bel nulla, che so, Chino Moreno coi suoi Crosses (ma lui si era già dichiarato anche coi Deftones), Greg Puciato dei DEP con il progetto The Black Queen e chi più ne ha più ne metta. Qui, però, il punto di vista verso quella decade è tutto un altro. “WYW” lavora più sulle atmosfere che sulla trasposizione nel nuovo millennio di quelle sonorità, aggiunge quel tocco di velluto ai chiodi insanguinati propri della scena punk e derivati portando il tutto ad un livello superiore nonché differenziando il linguaggio tanto da trascenderlo quasi totalmente.

La forza di brani come Giving Up risiede nel dar risalto alla voce pregna di sconfitta e dal retrogusto amaro e soffocante di Bannon, sostenuta da un pianoforte intenso che vede nelle composizioni dei Bad Seeds più di un punto in comune. Iron Rose si muove tra le pieghe di un’epidermide laminata di rumore bianco e gentilezza vocale che ci mostra J. in tutta la sua bellezza, in un unico e lungo lamento di disgrazia fino ad una muscolare esplosione dalle tinte epiche. Il lavoro è al tempo stesso mosaico e labirinto, a dimostrarlo ci sono batoste come la title track, pronta a sfondare denti senza mostrare pietà o il disagio sotto forma di lama lucente di Best Cry Of Your Life con la sua furia punk tout court e l’ipnosi percussiva di Maggio, qui impegnato in un magistrale lavoro di levigazione del groove e nocchiere di un crescendo debilitante.

Sentire l’urlatore di Boston alle prese con ballad come Hard Road To Heaven è uno spettacolo a cui nessuno pensava di poter assistere, col suo piano preparato che risuona infinito nell’incavo di vene vuote. Stessa cosa accade nell’immensa Breaking Point in cui il rumore si fa servo di un gusto cantautorale di natura spaziale, quasi un Father John Misty (o, azzardiamo, un Bonnie “Prince” Billy) immerso nel verbo classy e post punk degli ultimi Wire, relazioni ancor più evidenti sulla toccante e silenziosa Shine, gioiello di Americana che scava a fondo nelle radici statunitensi portandole alla luce di un male sopito, rivelando un cuore sfavillante, tutte cose che rendono il brano il migliore del lotto. Ostinata e pressante è invece Fog, infausta bordata indie-folk da 10.000 tonnellate che prende le costruzioni post e le piega ad un volere gentile ma tutt’altro che debole. A spiazzare è la natura fortemente industriale di Heavy Blood, pesante, arcigna ed immobile incastro di droni pestati da una batteria in puro piombo in netto contrasto con la conclusiva Goodbye Old Friend che riporta il mare a livelli di calma, infestando l’anima di malumore.

L’avrete capito già da soli che “WYW” è un lavoro difficile e malmostoso in tutta la sua imperante bellezza, uno spaccato di realtà fangosa in forte contrapposizione con la natura ferina dei Converge e dell’hardcore in generale. A voi l’impegnativo compito di spezzare le catene della chiusura mentale ed aprire le braccia a qualcosa di nuovo, che nuovo non è, ma che è pronto a restarvi impresso a fuoco nell’anima. E non è poco, ve l’assicuro.

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