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Interviste

Intervista agli ESPANA CIRCO ESTE

Debuttavano sulla lunga distanza nel 2015 con La Revolución Del Amor, disco che ci aveva convinto parecchio. Quest’anno sono tornati, dopo centinaia di date in giro per il mondo e litri di sudore, con Scienze Della Maleducazione, lavoro col quale hanno confermato le buonissime sensazioni di due anni fa. Sono pronti a scaldare nuovamente la primavera col loro tango punk, oltre che a farci ballare in estate. Stiamo parlando degli España Circo Este e noi abbiamo fatto due chiacchiere con loro.

Intervista a cura di Piergiuseppe Lippolis.

Dal vostro primo full length sono passati due anni e già allora mostravate una maturità rara per una band (quasi) esordiente. Oggi, l’impressione è che siate cresciuti ancora molto, nel sound come nei testi, sebbene lo spirito sia lo stesso: vi sentite più maturi o diversi in qualcosa rispetto a due anni fa? Com’è stato il periodo fraLa Revolución Del Amor e Scienze Della Maleducazione?
Maturi è una parola che non ci appartiene, ma sicuramente possiamo dire di sentirci più sicuri di noi. Le esperienze fatte, i km percorsi e i concerti de La Revolución Del Amor hanno arricchito tutti di un qualcosa in più. Il bagaglio che ci ha dato soprattutto l’Europa, è quello che si sente nel disco (forse è quella la maturità di cui parlavi). Per quanto riguarda il periodo fra il primo e questo secondo disco, l’abbiamo passato in studio a registrare e a mixare.

Nonostante la vostra musica sia un autentico manifesto di libertà, in questo disco è percepibile, forse più che in passato, l’influenza di artisti come Manu Chao (penso a Tango Kg) e forse non è un caso, visto che il francese ha un approccio simile al vostro, per certi versi. Quali altri artisti sentite vicini a voi, da questo punto di vista? C’è qualcuno a cui vi siete ispirati in maniera particolare?
Ramones, Queens of the Stone Age, Rolando Bruno, Gogol Bordello, R-Amen…qualcuno in particolare non c’è. Direi in generale molto punk.

Chi vi conosce già sa che il palco è la vostra casa: quanto di quello che offrite ai concerti è frutto di lavoro pregresso e quanto di improvvisazione? Avete pensato a qualcosa di particolare o di nuovo per stupire ancora il vostro pubblico?
Boh…siamo un gruppo che vive suonando per fortuna, questo ci permette di provare ogni sera delle cose. Se una battuta funzionerà a Milano è molto probabile che la si ripeta la sera dopo ad Ancona, se funzionerà pure ad Ancona molto probabilmente ci accompagnerà in molte date del tour. Diciamo che facciamo la giusta media fra la spontaneità e l’improvvisazione. Stessa cosa per la musica… se a qualcuno di noi in mezzo alle date dice: “oh, proviamo sta cosa!” e quella cosa ci piace e funziona all’interno dello show… quella cosa rimarrà con noi per molto tempo. E’ successo proprio l’altro ieri a Cosenza (-:

Ascoltando alcuni pezzi, si ha la sensazione che siano pensati per poter “deflagrare” in concerto: per una band come gli E.C.E., la cui dimensione naturale è il live, com’è confrontarsi con l’esperienza in studio? Quando registrate, pensate all’impatto che il brano avrà su un palco?
Diciamo che hai appena svelato il dilemma che ha sempre accompagnato i dischi ECE. Si, è un nostro grande difetto, o pregio, boh? Quando abbiamo in mano un pezzo lo pensiamo subito dal vivo. Questa è una cosa che non c’ha mai abbandonato, a volte è anche un po’ complicata spiegarla alla gente che magari lavora con noi. Noi pensiamo che sia la nostra piccola magia, e quindi cerchiamo di difenderla.

Siete giovani, ma avete già all’attivo un paio di tour all’estero: quando suonate davanti a chi non vi conosce, quanto incide il fatto che la vostra proposta musicale, per sua stessa natura, guardi al mondo intero senza restare limitata a dei confini nazionali? Che tipo di accoglienza vi riservano al di fuori della Penisola e “quale pubblico” ha mostrato un maggiore calore nei vostri confronti?
E’ un po’ strano. Forse è normale che ci vengano fatte domande del genere guardandoci da fuori, ma quando scriviamo o scappa fuori un bel ritornello o una bella frase, non si guarda “il mondo esterno senza restare limitata ai confini nazionali”. Una cosa o ci piace o no. Se poi è in italiano, spagnolo non ci pensiamo. Ci piace e quindi la si incide. Non abbiamo un pensiero, forse anche sbagliando, di guardare o dentro o fuori nazione. Per quanto riguarda invece l’accoglienza, direi super. Inaspettatamente calorosa. L’Olanda, per il momento, è il paese che c’ha stupito di più. Tanta gente che canta i pezzi ai concerti e tanti abbracci sudati a fine show.

Anche in Scienze Della Maleducazione, come accadeva in passato, avete curato molto la scrittura, unendo ritmiche coinvolgenti e accattivanti a testi profondi: vi sentite dei musicisti “impegnati”?
Non lo so se siamo o possiamo definirci “impegnati”. Quello che posso dire è che ci piacciono i ventenni che si impegnano in progetti dove si parla di uguaglianza, onestà, fiducia nel mondo, infatti suoniamo di solito in feste o festival organizzate da questa gente. Oggi le etichette non esistono più, i simboli sono caduti. Oggi ci sono le persone, e quello che fanno. Che a noi piacciono le cose che fanno gli studenti delle università, le iniziative delle associazioni, le battaglie che porta avanti Amnesty, l’impegno di Emergency o l’impegno civile dei CSO del nord est e di molte altre parti d’Italia, non penso che per questo possiamo definirci “impegnati”… o si?

La vostra severa critica ad alcuni aspetti della nostra società abbraccia un sound che comunica, invece, allegria e spensieratezza: è un implicito messaggio di speranza, un invito a essere comunque ottimisti o nulla di tutto questo? Come nascono le vostre canzoni?
Si, potrebbe essere. O potrebbe essere più semplicemente che ancora siamo ancorati bene alla realtà delle cose. Quello che è successo in Siria dovrebbe deprimerci, quello che è successo a Parigi annientarci. Penso che le cose scompaiono se non vengono raccontate, filmate o cantate. Noi sentiamo l’esigenza di descrivere, in maniera nostra, la realtà che si vive nel mondo. Dall’altra parte bisogna ricordarsi e ricordare che piangendosi addosso non si combina mai nulla, e magari cantare l’amore, la presa di coscienza e la rivoluzione potrebbe essere una buona cosa per ricordarci che ancora ne vale la pena, che ancora c’è speranza che io, singolo individuo, valgo qualcosa e posso cambiare qualcosa. 

Un ideale fil rouge che lega i vostri due dischi è la tematica amorosa: due anni fa ci raccontavate di un uomo che si ribella al sistema mosso dall’amore per una donna, oggi ne parlate in maniera forse più complessa e filosofica, esaltando il valore assoluto dei difetti e dell’imperfezione ed esortando ad amare tutto ciò che è ritenuto strano, tutto ciò che rende unici: ci spiegate il significato di Scienze Della Maleducazione?
L’hai detto tu appena adesso. I difetti, l’imperfezione. Una società che punta tutto verso la perfezione è una società che presto fallirà perché non sarà più abituata all’errore, al difetto, al diverso, e quando questo arriverà, non lo si accetterà più, non saremo più pronti ad interiorizzarlo e capirlo. Noi siamo difetto, noi siamo ruga, noi siamo tetta cadente, noi siamo pisello piccolo. È inutile che ci mettiamo dietro un computer o ad un telefono per nasconderci o per presentarci alla gente in un’altra maniera; possiamo mettere tutti i filtri che vogliamo alle nostre foto, ma resteremo sempre così. L’amore di cui parla “Scienze della Maleducazione” è prima di tutto accettazione. Accettazione di se stessi e degli altri, ma soprattutto dei cosiddetti “difetti” che caratterizzano ognuno di noi. Amare i difetti significa amare ciò che più ci caratterizza e ci identifica e combattere così l’uniformità, l’omologazione che la società ci impone con modelli di bellezza ormai palesemente artificiali, ritoccati, “corretti” insomma irreali. Oggi, accettarsi, è la cosa più rivoluzionaria di tutte.

Sempre più frequentemente si discute del rapporto fra musica e social: per molte band emergenti, Facebook e Instagram rappresentano una grossa opportunità per raggiungere un maggior numero di persone ed effettivamente c’è chi ci è riuscito (penso, per esempio, ai vostri compagni di etichetta de Lo Stato Sociale). Quale rapporto avete con questa realtà? Credete che sia possibile allargare la propria fanbase attraverso i social o semplicemente sia un modo per avere un legame più stretto col pubblico? Deve rimanere uno strumento per informare sulla nostra attività, sugli appuntamenti e sulle cose che puoi trovare a zonzo su di noi. Lo viviamo così noi, e continueremo a farlo. Bisogna in tutti i modi e con tutte le nostre forze, evitare che diventi la nuova realtà per le persone. È tutto!

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