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Pietre miliari

03.06.1997: dalla t-shirt ai completi eleganti, i 20 anni di “Album Of The Year” dei Faith No More

È la fine la più importante” diceva un tizio che ora non piace più alla gente perché fa il giudice ad X-Factor. Eppure aveva ragione da vendere. Quelli che, col senno di poi e a fronte degli eventi occorsi in determinate band, sono definiti come “gli ultimi album” hanno la medesima importanza dei debutti. Qual è un buon modo per andarsene? Frank Drebin/Leslie Nielsen nel film “Una pallottola spuntata” risponderebbe: “[…] Un lappone che con un morso ti strappa le palle, è così che me ne voglio andare.” Come hanno risposto invece i Faith No More? Con “Album Of The Year”, loro album finale (almeno fino a due anni fa), per molti il più debole, per altri un canto del cigno anomalo pieno zeppo di hit ma…

Ma sofferente di un complesso d’inferiorità di livello nei confronti anche solo paragonato al precedente “King For A Day…Fool For A Lifetime”, per gli stessi di prima il punto più alto del corpus faithnomoriano (questo lo dicono oggi, perché quando uscì fu un flop), confuso e disordinato nel suo ordine, punto d’eleganza dopo il devasto di un album feroce come quello appena citato, dalla t-shirt a camicia e cravatta, per intenderci, e nei suoi suoni impeccabili, forti di quella mano leccata di Roli Mosimann, ex-Swans che aveva già toppato la produzione del debutto della creatura chiamata Marilyn Manson pochi anni prima, e che qui non si capisce bene che cosa stia facendo, dimenticandosi che il produttore dovrebbe dare una sua identità ad un album, forse anche complice il fatto che a co-produrre sia il bassista della band Billy Gould, ma ne parleremo meglio dopo. Il primo disco del quintetto (anzi, quartetto, sorry Jon Hudson) che anni prima scosse il neonato mondo del crossover con dischi allucinanti, performance ma…

Ma arriva il tempo per chiunque di crescere e portare a maturazione effettiva quanto fatto in un’intera carriera equamente suddivisa tra follia, classe e divagazioni assurde del non-sense più estremo vagliato attraverso il tubo catodico mezzo MTV. E nel 1997 i giochi sono già bell’e che fatti e ognuno guarda altrove, soprattutto Mike Patton (ma non è mai stato un segreto), facendo i conti con una storia che sta per finire e mille altre che vedono la luce proprio in quei giorni. Forse un banco di prova per l’altrove di cui sopra, forse la voglia di pop che non è mai mancata, forse forse forse. Tante possibilità, nessuna certezza. Anzi, una c’è: oggi l’album compie vent’anni e, a differenza dei suoi predecessori, li sente tutti quanti.

È un male? Proprio no. Perché non essendo stato abusato da fan, televisioni e quant’altro “Album Of The Year” ha mantenuto in sé una sorta di saggezza dell’adulto che prima mancava. Certo, di osare non se ne parla nemmeno, di racchiudere inni immortali neppure, ma è un epitaffio più che corretto. Forse neanche i diretti interessati erano così convinti di ritornare in studio nonostante ciò che dissero in svariate interviste (non preoccupandosi forse di tradire ben poca convinzione): “C’è voluto un sacco di lavoro ma, alla fine, se non fossimo stati tutti convinti di voler fare altra musica come FNM di certo non saremmo qui” – chiosa Gould – “Non è che non avessimo altro da fare.

Insomma una sorta di “dateci tregua, facciamo quel che cazzo ci pare” o forse un po’ di pararsi il culo che non guasta mai. Come dicevo prima i progetti collaterali di ogni membro della band pesano senza dubbio nell’economia della band “madre”. A parlarne è Roddy Bottum: “Non parliamo granché, tra di noi, delle altre nostre band, così è sempre un enigma vedere cosa ognuno farà in questa. Personalmente non mi ritrovo a voler parlare agli altri di quel che faccio al di fuori. […] Penso che i FNM siano, nella mente di ognuno di noi, una sorta di progetto indefinito.

In quegli anni molti progetti che hanno sorretto il carrozzone del crossover sono andate scomparendo tra mille litigi taciuti ai fan, per ipocrisia o più semplicemente per evitare un calo estremo delle vendite o diventando semplicemente l’ombra di sé stesse, sfornando dischi inutili e ridicoli (quali? Facciamo un gioco, sicché potete commentare l’articolo, fate un bell’elenco sotto di esso. Vi sfido) e Patton non la manda a dire a nessuno: “Ironico, dato che siamo sempre stati bollati come quelli più ‘volatili’ in tutto questo. Molte band rock sono dipinte come dei piccoli team ‘up against the world’. Questa cosa è semplicemente un’incredibile stronzata ed il modo più sbagliato di definirci. Siamo molto contenti di parlare al mondo dei problemi che abbiamo all’interno del gruppo.” E questo è un altro importante elemento della crescita di un artista che, prima di tutto, è un essere umano a differenza di quanto pensino certi fan che vedono i propri idoli come…beh…idoli, che cazzo. Siete seri?

Così l’album si forma come qualcosa di diverso persino nei confronti di sé stessi. Quali erano le idee iniziali della band? A svelarlo è sempre il bassista: “Avrei tanto voluto fare un disco di ballad soul, ma il progetto è fallito davvero in malo modo.” Se ci pensate il fallimento di quest’idea è solo una questione di sonorità perché i brani che caratterizzano questo album hanno qualcosa che altre canzoni della band non avevano ossia una sorta di patina di tristezza e adulta consapevolezza dell’età che passa. Non più mocciosi, non più pazzi, ma una manica di stronzi che invecchiano sbattendolo in faccia al proprio pubblico. E poi perché “album dell’anno”? Un intervistatore si azzarda a porre la domanda “Album Of The Year‘…perché, lo è?” a Bottum e a Patton (coraggioso) e si sente rispondere dal primo “Ah, lo è? Non lo so” e dal secondo “Beh, sai, è solo il titolo. Non deve essere per forza vero” quasi a dimostrare che nemmeno loro credono granché nelle potenzialità del proprio pargolo.

Come introdotto in apertura d’articolo i suoni del disco son quelli che sono. Per i membri del gruppo al tempo erano esattamente ciò che volevano ottenere, ma a conti fatti è difficile trovarli davvero buoni. Il metodo di registrazione cambia radicalmente: da un approccio analogico e più “rock” l’asse si sposta sulle nuove tecnologie, il che è ovviamente un bene…altrove. Gli strumenti vengono registrati nella “cantina” di Gould, riversati su hard disk e su un Mac e in seguito consegnati a Mosimann che rivede tutto su Pro Tools, aggiungendo orpelli e samples.

L’effetto è senza ombra di dubbio straniante poiché il suono è estremamente affettato e pulito, tanto da sembrare freddo e distante, quasi precostruito, e forse è questa la carta dell’azzardo che giocano i FNM su questo album privo di stramberie tout court. Infine le chitarre, pur presenti e pressanti, non rivestono il ruolo che hanno avuto in passato (forse complice l’assenza di un chitarrista forte all’interno del combo come fu Jim Martin o anche la meteora Bungle Trey Spruance, non me ne voglia il buon Jon Hudson): “Su questo disco non siamo una band ‘guitar oriented’. Le idee non sono idee “di chitarra”, sono idee di basso e batteria sovrastate dalle melodie mie e di Roddy” – ammette Patton – “Le chitarre in questo caso si possono collocare sopra tutto questo, possono esserci o non esserci.

Eppure a sentire pezzi come Naked In Front Of The Computer, vero trait d’union con la ferocia di “King For A Day”, con il suo infernale incedere punk e la velocità figlia di The Accüsed e Black Flag (medesimi elementi tanto cari a Patton che anche Got That Feeling ne è pregna all’estremo), anziché no, non si direbbe proprio un album non “guitar oriented” oltre a racchiudere uno dei testi meno criptici di tutta la carriera pattoniana ed è l’amico Gould a renderci noto il suo contenuto: “Questo è un pezzo sulle e-mail. Patton è ossessionato dal fatto che le persone possano comunicare e stringere relazioni senza incontrarsi mai né parlare davvero. Ecco, la canzone è un’estremizzazione di questo concetto. La cosa divertente è che l’immagine di qualcuno seduto nudo davanti al computer non avrebbe avuto alcun senso qualche anno fa, ma ora tutti sanno cosa significa, è diventato parte della nostra cultura.” Correva l’anno 1997 e questi signori già sapevano come sarebbe andata a finire oggi tra social e amenità del genere.

Il disco si apre con la falcidiante Collision, vero titolo nomen omen sicché che colpisce in pieno volto l’ascoltatore. Sempre il discorso delle chitarre ancora una volta viene da chiedersi se siano messe davvero così a caso, nonostante la strofa del brano sia così infestata di melodia e ideale d’n’b sentimento, mentre il ritornello fa cadere chiunque in un pozzo oscuro fatto di violenza che va al di là anche del sogno più bagnato sul capolavoro “Angel Dust”. Ora più che mai i FNM spingono su un acceleratore alt-metal di livello che influenzerà più di una band, disgustando alla morte un Patton inorridito e infastidito senza mezzi termini dall’ondata nu metal. A tal proposito ricordo un’antica intervista pubblicata su “Rock Sound” in cui il nostro insultava tutti senza posa, in particolare i Papa Roach, pur non nominandoli personalmente, che si erano spinti a proporre una cover proprio da questo disco. A voi scoprire quale.

A star a sentire Gould il singolo Stripsearch – che ha fatto bagnare equamente teenagers e musicisti in tutto il mondo – si sarebbe tramutato, grazie all’inserimento di un loop in apertura, da pezzo a là Queensryche a figlio mutante dei Portishead. E l’ambience creata da Bottum su tutto il brano, che sacrifica i suoi pomposi archi synth (non li elimina, badate bene) in vista di un landscape oscuro, è lì a dimostrarlo. E qui sì che ci troviamo davvero davanti ad un’assenza di chitarre predominanti che però sanno quando comparire per ferire al volto i più disattenti, sotto forma di coltellata doom.

A far le spese del suono di cui sopra, che Patton definì al tempo comunque stilisticamente simile al passato ma che incorporava più sfaccettature in un unico flusso, a mio avviso è l’arrembante carica pregna di eclettismo di Mike Bordin. Se è comunque sempre presente il tocco particolare, se non unico, la traccia del suono che Puffy ha creato negli anni all’interno dei FNM rendendolo uno di quei musicisti riconoscibili qual che fosse l’album in cui compariva (e il signore in questione ha suonato in dischi terrificanti a firma Osbourne e Cantrell, ricordiamocelo) influenzando un notevole numero di batteristi, qui il sound ripulito azzoppa quel che è il risultato del suo giant-sized drum kit.

Ci tengo a fare una piccola digressione su Bordin, che vi piaccia o meno, perché tanto si è detto sull’altro Mike tanto quanto poco su questo. Come ha scelto di suonare la batteria? Accadde nel 1975 nella camera di Cliff Burton (proprio lui) il quale prende in quel momento una solenne decisione ossia quella di suonare il basso. Risposta immediata di Mike: “allora io suonerò la batteria”. Che dire, un modo sciocco di diventare uno dei migliori percuotipelli al mondo, no? E come nasce l’eclettismo cui accennavo prima? Ascoltando di tutto, prendendo come spunto batteristi come Paul Ferguson dei Killing Joke fino ad arrivare a Pete De Freitas degli Echo & The Bunnymen. Ovvio che la faccenda si sarebbe fatta seria, una volta intrapresa la carriera in una band fuori dalle righe come i FNM.

Nulla è perduto, comunque. Anche qui il suo modo di suonare bollerà come infiniti pezzi del calibro di Last Cup Of Sorrow che proprio ai Killing Joke sembra fare riferimento diretto, con il suo arcigno incedere da fine del mondo imminente: voce compressa in un microfono Telefunken, testo incalzante e votato all’ultima goccia di dolore di una vita votata allo sfascio, video al limite del capolavoro, come in un film di Hitchcock.

Se Helpless nel suo voto alla ballad più vuota lascia l’amaro in bocca, l’asticella torna altissima sulla violenta Mouth To Mouth e sulle sue incursioni simil-Bungle in un medioriente allucinato misto ad un hardcore melodico di puro stampo Bay Area. Sembra che Gould abbia trovato l’ispirazione in Albania dalla musica che usciva dai ghettoblasters di certi tamarri incontrati sul ciglio della strada tanto che una manciata di anni dopo lo ritroveremo dietro al banco mix dei gitani Kultur Shock (una versione estrema dei Gogol Bordello, seppur nati qualche anno prima della band di Eugene Hütz).

Inutile citare il monolite pop-metal che è Ashes To Ashes, ormai radicato nella mente di chiunque sia avvezzo alla band californiana, mentre vale la pena soffermarsi sulla ballad strappamutande She Loves Me Not che denota il segno che la cover di Easy ha lasciato sui Nostri, portando Gould quasi all’imbarazzo di averla scritta, col suo sound proveniente per sua stessa ammissione dai Boyz II Men, ma resa valida dai due Mike, dimostra comunque la capacità del gruppo di andare oltre tutto e tutti, sapendo bene come strizzare l’occhio al pubblico smanioso di limonare duro ai concerti.

L’ultima riflessione vorrei cadesse su Pristina, pezzo che ha fatto sudare ben più delle proverbiali sette camicie in fase di mix. Sembra che la band abbia passato parecchio tempo per equalizzare le estreme aperture di chitarra elettrica presenti nel brano che grazie alla loro epicità disumana danno un tocco alieno a questa canzone-non canzone, tanto che essa sembra dare i natali a tanto post-metal di isisiana memoria (alla faccia del non guitar oriented album, mr. Patton).

Insomma siamo andati lunghi ma da qualche parte dovrò pur andare a parare. Dove? Semplice. Il tempo è stato gentiluomo, in qualche modo, con “Album Of The Year” tanto da poterlo definire come l’Album conclusivo perfetto in una carriera tutt’altro che semplice e lineare, che fotografa a pieno la discontinuità di un gruppo che, per stessa ammissione dei suoi stessi membri, non si sa né perché né percome sia diventato famoso a tal punto. Purtroppo di last album non si tratta poiché due anni fa i nostri sono tornati tutti arzilli con un disco dimenticabile, e assolutamente dimenticato (nonostante i grandi insulti incassati da me medesimo in sede di recensione dello stesso), intitolato “Sol Invictus” ma che di invitto mostra ben poco, anzi.

Ma, chissà, magari tra vent’anni, il galantuomo signor Tempo potrebbe far la cortesia di farci ricordare anche questo disco come un ultimo ottimo canto del cigno. Vorrete mica dirmi che ne faranno altri? Staremo a vedere. Intanto di Album dell’Anno ce n’è uno solo e ci ricorda ancora oggi i “bei tempi andati”, come già faceva nell’ormai lontano 1997. Tanti auguri.

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