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“Sehnsucht”, Eros e Thanatos al tempo delle macchine

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“Nella scorsa puntata”, ossia sull’articolo riguardante i The Prodigy, vi ho parlato di come la club culture anglosassone e i suoi atipici punk della working class dopata hanno saputo influenzare la cultura della musica cosiddetta “pesante” infiltrandosi tra le maglie d’acciaio degli ascolti machisti di certi loschi figuri dal capello lungo. Oggi, invece, facciamo la strada al contrario. Una sorta di “canone inverso” che finisce per incontrarsi, prima o dopo, nello stesso punto del pentagramma. Per raggiungere lo scopo prenderò in esame i teutonici Rammstein approfittando del ventennale del loro secondo album “Sehnsucht”.

Come è giusto che sia la storia e i suoi cambiamenti finiscono per inficiare la nascita di determinati musicisti e controculture più o meno blasonate e sdoganate, anche se ora è stato tutto sdoganato divenendo talvolta ridondante e dozzinale, ma questa è un’altra storia. Dicevo? Ah, sì, i cambiamenti storici.

Questa storia inizia nella Germania Est, dunque nel bel mezzo della DDR (Deutsche Demokratische Republik, per i più disattenti) a cavallo tra gli anni ’80 e i primi ’90 e riguarda sei ragazzi tedeschi sparsi nelle più disparate band intenti a lavorare per non dare nell’occhio nascondendo le proprie pulsioni musicali poco consone ad un regime istituito tanto lontano quanto vicino. “Lavori alibi” li definisce qualcuno nella band, insomma, per vivere si deve pur far qualcosa e la vita ad est non era così costosa da mettere alle strette chi ne aveva uno.

Altro problema fondamentale, come sottolinea il chitarrista e membro fondatore Richard Kruspe, era la fruizione della musica che stava prendendo piede al di là del Muro, con tutte le mode ad essa legate. Così in Germania si fa strada l’idea che la moda vada creata e la tendenza forgiata con le proprie mani. Dalle ceneri di un punk ormai ustionato dalle facezie da rockstar e con post-punk e new wave nelle vene, sulla pelle ed in testa comincia a formarsi tutta la scena industrial teutonica diventata ormai leggenda e che prese il nome di Neue Deutsche Welle.

La musica elettronica, l’idea di club e underground meccanico ed oscuro, con tutte le fanzine, i nastri e, ovviamente, l’ondata di band folli e disparate diventa la personale rivoluzione del Punk ’77 di un Paese piagato dal conflitto e dalle sue conseguenze, con una nuova generazione di musicisti pregni della volontà di creare qualcosa di nuovo e non ascrivibile a null’altro che si trovasse oltre Manica od oltreoceano.

La stessa cosa pare accadere agli stessi Rammstein, come più volte avranno modo di ribadire nel corso degli anni gli stessi interessati: “All’inizio abbiamo provato a cantare in inglese” – ammette il cantante Till Lindemann – “ma ci siamo resi conto che cercare di trasporre le nostre tematiche in una lingua straniera era davvero difficile e molto di ciò che volevamo trasmettere si perdeva nella traduzione, invece cantare in tedesco si adattava perfettamente con il nostro sound ‘monotono’ e pesante.

Il secondo chitarrista Paul H. Landers addirittura si sente di dire: “Odio le persone che tentano di essere ciò che non sono, ad esempio cantanti soul ma senza anima. Preferisco qualcuno che sia onesto, che pensi in maniera differente e che faccia stupida ‘marching music’ come facciamo noi, che è qualcosa che ci appartiene e che siamo in grado di suonare

Insomma, per creare qualcosa di nuovo il punto chiave dei nostri è semplicemente essere in grado di produrre l’unica cosa che si è in grado di fare davvero, senza seguire i precetti di nessuno. Va da sé che è impossibile non sentire nella musica dei tedeschi influenze provenienti anche dalla musica pesante e “crossover” in ascesa negli anni ’90 negli Stati Uniti (tra le altre cose Kruspe ha vissuto lì per un po’ di tempo assimilando gli stilemi statunitensi, pur preferendo discostarsene).

Da questi presupposti nasce, nel 1995, il primo album della band intitolato “Herzeleid” che racchiude in sé i germogli di ciò che finirà per rappresentare agli occhi di un mondo musicale in continua e rapida espansione. Se i Nine Inch Nails vivono nei sogni più marci e viscidi della mente industriale dei ragazzi del tempo i Rammstein si pongono al di là della psiche attestando la propria presenza nella natura più fisica ed impropria delle psicosi che lentamente consumano il nuovo mondo a cui ci si sta affacciando.

L’album ha ottimi riscontri e lo stesso Reznor porterà due brani alla corte di David Lynch per la colonna sonora del film “Lost Highways” e nel video della title track trovano spazio proprio alcuni degli spezzoni della pellicola in questione. Alcuni membri della band sostengono di aver spedito il disco a diversi registi tra cui proprio il creatore di “Twin Peaks” e che egli ascoltasse l’album ogni giorno in macchina andando verso il set. La parte visuale che caratterizza la band è, sin da subito, facilmente accomunabile al mondo della cinematografia e si lega così subito al doppio filo ad essa.

Come nascerà tanta violenza più simile ad un carro armato corazzato di tutto punto che ad un insieme di strumenti? Nella maniera più semplice possibile, pur tradendo la strana unione di questo gruppo che non pare essere un insieme di amici (nonostante il bassista Oliver Riedl sostenga l’opposto), piuttosto persone che hanno in mente un obiettivo comune: fare male.

A dipanare le nebbie sulla questione è Landers: “Finisce tutto con sei persone coinvolte nella fase di mixaggio. Quando il produttore finisce di mixare il tutto ci mettiamo ad ascoltare assieme il risultato e ne discutiamo. E questo è davvero faticoso. Così inizia la discussione: ‘non mi piace questo passaggio, è troppo rumoroso’, ‘questa sequenza è troppo poco rumorosa’. E allora come la facciamo? ‘Io farei suonare più forte la tastiera’, ‘no, io invece la terrei più bassa’. Così finisce che io annoto tutte le argomentazioni e le porto al produttore. Che ovviamente ci dice ‘non potete fare questo o quello perché altrimenti succederà questo’ e quindi i tempi si allungano e ci vuole molto prima che noi si ottenga una canzone che vada bene a tutti.

A due anni di distanza da un debutto finito cinque volte nel giro di diciotto mesi nelle chart di tutto il mondo i sei tedeschi fanno approdare nei negozi il succitato “Sehnsucht” ma l’accoglienza iniziale è tutt’altro che esplosiva. I contenuti del disco sembrano essere i medesimi del suo predecessore, eccezion fatta per l’inasprimento delle chitarre, diventate molto più taglienti, la compressione dei brani tirata all’estremo così come l’idea di “monotonia” che pervade i brani. I timori si dissipano in fretta poiché, almeno in patria, l’album nelle prime due settimane dall’uscita, schizza al primo posto delle classifiche meritandosi negli anni il disco di platino negli Stati Uniti.

A parlarne, comunque, è il batterista Christoph Schneider: “Penso che questi due dischi siamo molto simili per certi aspetti. Abbiamo pensato a lungo al secondo album perché se hai un primo full lenght di, pur relativo, successo il seguente è sicuramente più difficile da creare. Alcune persone pensano che avremmo dovuto fare esattamente le stesse cose fatte in precedenza. […] Personalmente trovo che ci siano due cambiamenti fondamentali: il primo è che la nostra musica è diventata leggermente più ‘sensibile’ e non solo abrasiva ed incazzata come sul ‘Herzeleid’. Poi, per me, la cosa migliore che sta accadendo è che Till ha cominciato più a cantare piuttosto che recitare i testi.

E proprio i testi della band, diventati ancor più intensi e legati alla carne umana, finiscono sotto i riflettori dei media che li ritengono offensivi ed oltranzisti. Così come accomunano la band a certe frange dell’estrema destra a causa dell’utilizzo della propria lingua natale su impianti musicali marziali ed algidi. Niente di più lontano dalla verità e gli stessi componenti del gruppo si dicono stupiti della cosa, addirittura il tastierista Christian “Flake” Lorenz non si capacita di come possano essere male interpretati siccome “sono testi tipicamente romantici”. La rivoluzione del nuovo industrial segue pari passo quella della prima ondata ossia tenta la strada dell’eliminazione dei tabù attraverso uno shock ed una pesantezza finora rimaste assopite nell’animo umano e la stessa cosa vale per i Rammstein.

Così accade nel nuovo album. I brani, per ammissione dello stesso Till, sono perlopiù testi d’amore, in tutte le sue più disparate accezioni e perversioni, tra oscurità e ovvietà (per il cantante la cosa più ovvia del mondo è la “lotta” che avviene tra uomo e donna nella fase del corteggiamento, un eterno inseguirsi, trovarsi, perdersi e infine unirsi e non solo romanticamente). Pezzi come la title track (che è anche l’opener dell’album) dimostrano come tutto ciò sia reale.

Sehnsucht è una canzone d’amore perduto e della volontà dell’individuo di voler ancora una volta giacere con la propria amata. Passaggi come “Zwischen deine langen Beinen such den Schnee vom letzten Jahr doch es ist kein Schnee mehr da”, che tradotto suona come “Tra le tue lunghe gambe cerco la neve dello scorso anno ma qui non c’è più neve”, danno la misura di come la musica tremendamente violenta, un misto di techno algida, samples arabeggianti e chitarre taglienti all’estremo, possano fare da base ad un anelito ad un sentimento puro seppur sporco.

I doppisensi sono da sempre una caratteristica inoppugnabile della band e l’esempio più chiaro della cosa è il singolo Du Hast. Il dualismo tra la traduzione effettiva che è “Tu hai” e il suo corrispettivo “du hasst”, dunque “tu odii” è chiara sin da subito. Infatti la versione in lingua anglosassone presente nella deluxe edition del disco presenta il brano come You Hate, gettando ancor più ombre sulla questione. Il pezzo è uno dei più famosi in assoluto – tanto famoso da diventare una hit dance e finire pure in qualche compilation di genere – ed è, musicalmente, la trasfigurazione di quanto dicevo in apertura di articolo: un mostruoso incesto di musica da club berlinese infestata da chitarre ultra metal, che pone i fan di tale genere davanti a più di un quesito.

Ad accompagnare il singolo c’è un video pazzesco con un ulteriore richiamo a Tarantino, questa volta quello di “Reservoir Dogs”, per suggellare ancora una volta la comunione tra industria cinematografica e gli intenti visivi (o visionari?) del gruppo.

La parte visuale della band, infatti, è da sempre curata allo sfinimento e i videoclip non fanno ovviamente eccezione. Se i primi due usciti, Du Riechst So Gut e Seemann entrambi tratti dall’album di debutto, non erano tra le priorità del gruppo, al tempo ancora inconscia della potenzialità del mezzo, il tutto cambia col terzo, ossia Engel, nel quale tributano Robert Rodriguez e Quentin Tarantino con la loro rilettura di “From Dusk Till Dawn”, esercitando completo controllo sulla produzione della clip.

Come sempre l’interpretazione delle liriche è duplice: entra in gioco il dubbio sull’esistenza di Dio e dei suoi primi figli, nonché emanazioni, rafforzata dalle parole negative di alcuni membri della band nei confronti della fede e del paradiso in senso stretto. Ma se “specchiata” la canzone denonata anche lati più umani, in cui la continua ricerca della perfezione diventa, in breve tempo, delusione e dolore.

Altro tema scabroso a far capolino nel disco è quello dell’incesto, che si palesa in ben due brani: Tier e Spiel Mit Mir. Il tiro omicida della prima, introdotta da assurde chitarre acustiche, tra funk e flamenco, narra la storia di un padre che abusa della propria figlia. Quest’ultima, cresciuta, si vendica uccidendo il genitore e scrivendo la sua storia nel sangue di quest’ultimo. Gli uomini visti come animali guidati da un istinto mostruoso, quasi una trasposizione post-umana di More Human Than Humans dei White Zombie.

Nella seconda invece l’incesto viene osservato e descritto come una fantasia nascosta che ben presto si realizza. Il suo incedere marcescente ed estremamente gloomy riporta presto alla mente i brani più luridi del collega Marilyn Manson e porta con sé tutto il terrore di lasciare libero il corpo di seguire le voglie inconfessabili della mente. Un fratello viene invitato a giocare ad un gioco che porta con sé conseguenze terrificanti.

Altro elemento tanto caro a chiunque sguazzi nella materia industrial è il BDSM e i Rammstein non si fanno mancare nemmeno quello. È di nuovo una coppia di canzoni a far affiorare queste perversioni. In questo caso si tratta di Büch Dich e Bestrafe Mich ed entrambe mettono sotto i riflettori le relazioni sadomasochiste, una molto fisica ed improntata verso la sodomia e, eventualmente, lo stupro, l’altra il rapporto che viene a crearsi tra “master and servant” (per parafrasare i tanto cari Depeche Mode), visto anche dal punto di vista religioso in cui Dio è, ovviamente, il padrone e il credente il cieco servitore. Musicalmente le canzoni vivono all’opposto: la prima è una fiocinata disastrosa che trascende l’hardcore punk mentre la seconda è una marcia ultra stomp che fa tremare le pareti.

C’è posto anche qui per una “ballad” struggente e si tratta della splendida Klavier. Eros e Thanatos si prendono la scena con la loro carica insita di vita e di morte, forti come un agghiacciante grido nel silenzio. L’amante dedica un brano al pianoforte alla propria amata, salvo poi rinchiuderla in soffitta.

L’assurda Alter Mann riporta, quando le chitarre vengono a mancare, il synth pop più zuccheroso e patinato in voga negli anni ’80, forse anche certe cosucce di Falco (perché no?). Anche questo brano piazza sotto gli occhi di tutti due lati della stessa medaglia: da una parte la saggezza dell’uomo anziano, dall’altro l’avventatezza di quello giovane, ubriaco di sentimenti battaglieri e riottosi. Ovviamente non è l’unico significato che si può trovare tra le righe del testo, l’unica sarebbe chiedere al diretto interessato, ovvero Till, ma non so quanto se ne potrebbe cavar fuori.

Insomma, “Sehnsucht” è un album/caleidoscopio di significati e significanti, che di univoco ha solo l’assurda monotonia di ogni singolo brano, che porta allo sfinimento con il suo infinito ripetersi di segmenti chitarristici e ritmiche da dance floor infernale. L’artwork stesso, ad opera dell’artista visuale Gottfried Helnwein, è un gioiello in tal senso. Nel libretto i membri della band sono ritratti addobbati da ferraglia assortita e presentano una pelle cerulea che fa pensare a sei cadaveri imbellettati per una mostra macabra inneggiante al post-mortem, mentre sul retro troviamo una spiaggia immortalata con tinte scure che, seppur nel gelo che l’ammanta, non manca di cozzare col resto del libretto.

Per molti è questo il capolavoro dei Rammstein ma per il sottoscritto si dovranno aspettare altri 4 anni con l’avvento dell’immenso “Mutter” nel 2001 (di nuovo un terzo album come capolavoro assoluto, ricordate il discorso su Prodigy e QOTSA?) che mostrerà il lato completo della band che già dal successivo “Reise Reise” comincerà a mostrare il fianco rimanendo intrappolata nel proprio canovaccio e senza portare nulla di veramente nuovo o interessante nelle proprie composizioni facendo, però, la felicità dei fan più propriamente metallari (anche se “Liebe Is Fur Alle Da” alza l’asticella, seppur di poco).

Questo mio POV (acronimo famoso nell’ambito della pornografia, per restare in tema) mi costerà delle critiche, ma ogni realtà musicale andrebbe letta nel modo più oggettivo possibile e questo è quanto. Fermo restando che la band teutonica ha messo in luce un modo di intendere la musica elettronica e quella più propriamente rock unico nel suo essere inscindibile ed è per questo che è giusto sottolineare come i vent’anni e passa del loro secondo album mostrano ancora un lavoro completo che avrebbe potuto portare altrove, molto più in là e non solo loro. Approfittiamone, dunque, per riascoltarlo e ballarci su.

[Ci tengo a ringraziare in particolar modo il sito www.rammstein.it  e tutti i suoi collaboratori che negli anni mi hanno permesso di comprendere al meglio le storie narrate da Lindemann e soci essendo io totalmente digiuno di tedesco]

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