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Steven Wilson – To The Bone

2017 - Caroline International
alt-pop / rock

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Tracklist

  1. To The Bone
  2. Nowhere Now
  3. Pariah
  4. The Same Asylum As Before
  5. Refuge
  6. Permanating
  7. Blank Tapes
  8. People Who Eat Darkness
  9. Song Of I
  10. Detonation
  11. Song Of Unborn

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Incarnare Steven Wilson dev’essere davvero difficile. Svegliarsi la mattina, guardarsi allo specchio, rendersi conto di essere uno dei più grandi compositori rock dell’epoca moderna e dover cercare lo stimolo per poter alimentare un genio che finora ha faticato nel deludere fan e critica.

E se questa definizione vi pare esagerata, vi sfido a trovare un artista Prog-Rock tanto ispirato quanto eclettico come il nativo di Kingston upon Thames, Londra. Già, perché nonostante il passato professionale del ragazzo prodigio inglese sia ben noto ai più, la nuova avventura solista, iniziata ormai cinque album fa con il seminale “Insurgentes” (2008), è pronta nuovamente a scuotere le coscienze dei fan con materiale inedito. Tutto ciò, con un’eredità rumorosa come quella lasciata da un gruppo di nome Porcupine Tree.

Gli orfani della band che Classic Rock descrisse come ‘la più grande formazione che avrete modo mai di ascoltare’, infatti, soffrono ancora di una rara sindrome da abbandono che in parte li porta ad amare il genio di Wilson, dall’altra li fa sentire traditi perché il nuovo materiale è lontano anni luce dai lavori precedenti.

Il presente ci parla invece dell’album “To The Bone” uscito il 18 Agosto via Caroline International nei negozi di tutto il globo. Un disco che aveva cominciato a far discutere di sé almeno già due mesi prima che la copertina vedesse la luce degli scaffali di un rivenditore.

Ma partiamo dal principio. La definitiva consacrazione di Steven come artista solista è coincisa con la stesura del quarto lavoro in studio, “Hand.Cannot.Erase.” del 2015. È con questo concept album poliedrico che Wilson attira l’attenzione del panorama musicale internazionale, grazie a tracce dal sapore progressive, ma capaci di strizzare l’occhio a sonorità easy listening come mai se ne erano viste in trent’anni di carriera.

To The Bone” arriva con un peso sulle spalle non indifferente e, come se non bastasse, ad aggiungere ulteriore hype nei confronti del pubblico, c’aveva pensato lo stesso Wilson dichiarando a più testate giornalistiche che questo lavoro per lui sarebbe stato un flirt dichiarato con il genere pop, un tuffo in un universo molto lontano dal suo, ma che lo stimolava a tal punto da passare al lato oscuro della forza. WOW. Per rendere l’idea, è come se un impiegato alle agenzie funebri decidesse di ricevere la clientela vestito da clown. Il compositore inglese ha sempre scherzato sulle sue attitudini depressoidi e più di una volta nei live ha dichiarato, senza troppi fronzoli, che le attività che mandano la gente comune su di giri, lo rendono invece triste.

Insomma come premesse niente male. Rispettate? In parte.

To The Bone” è, senza ombra di dubbio, il lavoro più difficile da analizzare per quanto riguarda l’artista progressive d’oltremanica. Dall’inizio alla fine si percepisce come Wilson abbia sì raggiunto lo scopo, ovvero avvicinarsi ad ambienti pop senza scadere nel patetismo da macchietta, ma allo stesso abbia lasciato l’ascoltatore confuso, perdendo per strada la ben nota eterogeneità che lo aveva contraddistinto nelle precedenti fatiche.

Manifesto di quanto detto, l’opener e title track To The Bone, pezzo progressivo nella composizione, ma dal ritornello catchy e senza incisività espressiva. E’ un continuo assaggiare piatti prelibati, ma senza un pizzico di sale. Non che manchino spunti di genialità. Wilson è quell’artista che, dall’alto della sua onnipotenza, non solo potrebbe fare pop, ma lo potrebbe fare ad alti livelli. Come in Permanating, detto anche Singolo della Discordia (dopo la sua uscita lo stridore di denti ha raggiunto picchi di decibel non indifferenti), dove Steven ci mostra cosa sia la maestria del suono (sempre impeccabile) e la sapienza delle strutture musicali. In Permanating paradossalmente c’è tutto Wilson: il sincretismo/tributo ad alcuni degli artisti più cari al musicista di Londra, l’originalità di chi sa creare da una base acquisita senza plagiare e in ultimo una grande solidità. Tolte le apparenze di una composizione pop-melodica, c’è la vera anima del vate (chi ha detto ABBA?).

L’album rimane tuttavia una forte altalena, fra croci e delizie. Non mancano i momenti d’ascesi, altro marchio di fabbrica degli album Wilsoniani. Su tutti la celestiale Pariah, che consolida la collaborazione con l’eterea Ninet Tayeb, una che di strada ne ha fatta da quando era incaricata di doppiare i cartoni animati della Disney in lingua ebraica ed ora invece fa coppia fissa (artisticamente parlando) con Wilson dalle genesi di “HCE“. Sulla stessa scia la breve Blank Tapes, dove sono forti i rimandi alla scena alternative americana dei primi anni Novanta. Bel mood quello di People Who Eat Darkness, ennesima dimostrazione della capacità del timoniere di virare l’imbarcazione un po’ qua un po’ là rimanendo in equilibrio tra pop e rock da classifica. 

Per un fan medio del nerd Londinese (alcuni sviluppatori di videogame italiani hanno realizzato un gioco con la colonna sonora piena zeppa di canzoni di Wilson ndr), “To The Bone” rimane però una ricerca costante del progressive dal palato fine a cui sono stati abituati da decenni. E come assetati che cercano la fonte, i fan vengono accontentati solo ad una traccia dalla fine, con la lunga e iperbolica Detonation, troppo slegata dal contesto per non sembrare un modesto contentino. Ah, neanche a dirlo, il pezzo di per sé è grande musica.

Alla fine della giostra, il disco rimane un ibrido, uno splendido ibrido, ma pur sempre un ibrido. Non è un album pop, non è roba da King Crimson. E nonostante questa sia la vera forza del progetto, perché non risulta mai uguale a nulla di già sentito o composto, d’altro canto non lo fa mai avvicinare neanche lontanamente alle vette di “Hand.Cannot. Erase.“, sia in materia di uniformità, ma anche in materia di concept.

Steven Wilson è da ammirare perché è una testa pensante, indipendente e che segue un corso rivoluzionario praticamente da quando ha iniziato a fare musica. Quest’ultima produzione conferma la stessa tendenza, tuttavia il risultato è oggettivamente controverso. Quando si preannuncia lo scopo di un’opera senza mezzi termini, la risultante deve essere ben circoscritta. Invece Steven si esibisce in un una rielaborazione scientifica di un genere che invece ha contorni molto semplici e poco cervellotici, seguendo tra l’altro dei canoni che puzzano un po’ troppo di rock progressivo.

È paradossale, ma se Wilson avesse usato tutta la sua sapienza per fare un lavoro sfacciatamente pop, senza ibridi, avrebbe spaccato le classifiche. Ma ciò che nasce tondo non può morire quadrato e una legge non scritta del mondo dell’arte dice che è impossibile dipingere un quadro con cinque stili diversi.

In definitiva, nessuno ricorderà “To The Bone” come il miglior album di Steven Wilson da solista, nonostante la costante voglia di innovare del genio londinese. Forse fra qualche tempo, come spesso succede, verrà rivalutato per la profondità stilistica, o forse verrà dimenticato perché troppo campanilistico. Intanto, le classifiche di tutto il mondo lo stanno promuovendo a pieni voti. E la ragione da che parte sta?

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