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Resistenze Sotterranee

Resistenze Sotterranee #2: l’hip hop italiano e cinque album da riscoprire

Resistenze Sotterranee

L’hip hop in Italia, molto più che nel resto d’Europa, per non parlare dei natii USA, ha conosciuto fasi di grande esposizione mediatica, alternate ad altre di riflettori spenti e totale disinteresse (sia ben chiaro: da parte del pubblico generalista). A partire da quella che potremmo definire “seconda esplosione”, trainata circa una decina d’anni fa, piaccia o meno, dal grande successo riscosso da Fabri Fibra e Club Dogo, la situazione sembra essersi un po’ assestata. Oggi anche realtà indipendenti dalle grandi strutture dell’intrattenimento, o perlomeno nate come tali, riescono a ottenere risultati più che dignitosi, creandosi un seguito notevole e talvolta duraturo. Sottolineare come lo sdoganamento di massa di internet abbia rivestito un ruolo centrale in questa prepotente affermazione, che qualcuno dipinge già come definitiva ma personalmente ritengo sia il caso di andarci un po’ più cauti, è doveroso. Lo è però anche notare come, a dispetto di una considerazione generale mediamente più alta nei confronti del genere, i gusti del pubblico tendano ad essere sempre piuttosto omologati e ristretti.

Oggi va fortissimo la trap e sembra che giovani e meno giovani, vogliano ascoltare solo quella. Pochi anni addietro, sembrava che qualunque rapper degno di tale nome, dovesse prodursi nei propri esercizi lirici sulla dubstep. Prima ancora, il trand del momento erano le basi sintetiche tipiche del dirty south di Atlanta e così via. Chi non vuole conformarsi, inserendosi in una determinata corrente, rischia di venire malamente ignorato. Tant’è vero, che succede in continuazione. Prodotti che paiono essere fabbricati in serie, al punto che finiscono per assomigliarsi tutti, diventano argomento di discussione ovunque, salvo venire dimenticati nel giro d’un mese. A lavori ben più complessi ed originali, non viene concesso nemmeno il minimo sindacale d’attenzione. Le cause possono essere molteplici e forse, nemmeno tutte attribuibili alla scarsa curiosità del pubblico. Oggettivamente, anche oggi che la principale vetrina per la musica è la rete e che quindi, qualunque artista avrebbe potenzialmente le stesse possibilità di tutti gli altri, avere una strategia promozionale efficace fa la differenza. Purtroppo, non tutti possono permettersela. A parte questo: nonostante lo stato di grazia di cui apparentemente sta godendo il genere, ha al suo interno alcune falle enormi e forse insanabili.

Non giriamoci troppo attorno: il fatto che un programma pacchiano e adolescenziale come “1,2,3 Jovanotti”, sia stato il biglietto da visita del rap per la maggior parte degli italiani, ha minato la credibilità della faccenda già in partenza. Ok che tra uno sketch e l’altro accadeva di imbattersi in artisti di prim’ordine come Run-DMC e Public Enemy, ma l’atteggiamento di Cherubini e della maggior parte degli ospiti, poteva fare emergere un solo e significativo dato: l’hip hop è una cosa per ragazzini scemi. In secondo luogo, l’ortodossia oltranzista e l’integralismo ostentato dalla scena propriamente detta durante gli anni ’90, se inizialmente motivati dalla necessità di prendere le distanze da carnevalate come quella citata poc’anzi, col tempo hanno finito per rivelarsi un clamoroso autogol. Il pubblico non ha così avuto modo di essere abituato a determinati suoni, finendo per identificare nei soli bestseller distribuiti dalle grandi etichette, un panorama molto più variegato.

Aldilà di queste considerazioni generali, alcuni artisti estremamente validi, autori di album pregevolissimi, pur avendo tutte le carte in regola per costituire dei punti fermi da cui ripartire all’interno del proprio ambiente, sono finiti presto nel dimenticatoio quando non passati totalmente inosservati. Proverò, almeno parzialmente, a rendere giustizia ad alcuni di loro nelle righe che seguono.

La Comitiva – Medicina Buona (Virgin, 1999)

Una pratica che per motivi invero difficili da individuare, è sempre sembrata particolarmente invisa a un copioso numero di rapper e beatmaker nostrani, è quella della commistione con altri generi. Non era (e si presume non sia nemmeno oggi) di quest’avviso invece Ice One, noto soprattutto come fondatore e producer storico dei capitolini Colle Der Fomento. Unendo le forze ad altre eccellenze romane come DJ Stile, David Nerattini, Riccardo Senigallia e Francesco Zampaglione dei Tiromancino, il buon Seba sul finire del secondo millennio, tirò fuori dal cilindro questo gioiellino.

Atmosfere ora cupe ora trasognate, una marcia in più nella ricerca e nell’uso dei campioni, gusto per la contaminazione elettronica e un occhio di riguardo per certa musica italiana dei tempi che furono. Questi i punti salienti dell’impasto sonoro cavalcato dai rap dal deus ex machina del progetto, tecnicamente piuttosto grezzi ma sempre precisi e puntuali nel restituire all’ascoltatore immagini vivide e significative. Col non trascurabile merito di possedere due qualità che tra gli mc italici, spesso latita anche quando in prossimità dei quarant’anni: concretezza e maturità. Tra gli episodi più riusciti: “Il senso del mio viaggio”, “Salvo dentro al fuoco”, “Giorno dopo giorno”, vecchio cavallo di battaglia di Ice One in una veste totalmente nuova e “Se tutto fosse”. A dispetto di un contratto con la Virgin e della presenza di Frankie Hi-NRG ed Elisa Toffoli, il singolo “Nottetempo” riceverà un airplay irrisorio e l’album si rivelerà sostanzialmente un flop commerciale.

Ozio – Ozio vs Il Male (autoproduzione, 2001)

La provincia, si sa, sa essere davvero ingiusta e ingrata coi propri talenti. E in particolare la provincia di Vercelli, triste crocevia di bifolchi tra le risaie piemontesi, di cui anche chi scrive è originario. Dopo essere stato protagonista con la crew Covo Delle Bisce di quella che è considerata la golden age dell’hip hop italiano, Ozio si ritrova solo davanti a un sipario chiuso. Autore pressoché completo delle strumentali di un EP uscito nel 1998 (oggi molto ricercato dai collezionisti), l’artista si ritrova a fare i conti col naufragio dei propri progetti musicali, nonché con seri e pesanti problemi personali. Fortunatamente, riesce a far sì che tutta la rabbia e la delusione per questi giorni difficili, diventino carburante per la sua creatività tra le mura dello studio domestico, dando forma a una lezione di hardcore rap da manuale.

Le strumentali sono tutte potenti, musicali, incisive: vecchi vinili polverosi forniscono funk e soul in abbondanza, le chitarre vengono interamente suonate dall’autore, il rap, ora aggressivo ora struggente, colpisce l’ascoltatore dritto al cuore con funamboliche costruzioni metriche e testi pieni di sentimento. Purtroppo, la scarsa disponibilità economica porterà alla stampa di poche copie, esaurite tra amici e conoscenti e mai andate oltre i ristretti confini regionali. L’unico modo per reperire questo capolavoro ormai è tramite i siti di file sharing. Su YouTube si trovano pochi pezzi. Ma provate ad ascoltare la titletrack e dirvi, in cuor vostro, se non avete mai pensato: “…porca troia! Basta paranoia, un po’ di gioia merito anch’io! Continuo a fare bene ma il ringraziamento è pessimo…”. Chissà che in quest’epoca di retromania, qualcuno non pensi di ristamparlo… Sarebbe un atto di giustizia e una possibilità per tutti di (ri)scoprire un grande album.

Neo Ex – L’Anello Mancante (Ex Neo Project, 2002)

Se siete arrivati a leggere fin qui, non credo ci sia alcun bisogno di spiegarvi chi sia e cos’ha fatto Kaos One. Due parole di presentazione in più forse, le meriterebbe Gopher D: ex membro di due esperienze seminali per la diffusione della black music nello Stivale come Isola Posse All Stars e Sud Sound System, nonché autore di un interessante album solista nel 2000, dal titolo “Lu servu de Diu”, oltre a vari altri EP e compilation. Il sodalizio artistico tra i due, nasce proprio in quel periodo di calma piatta per la scena di cui si è già detto. E si concretizza in un prodotto oscuro, viscerale e dal forte retrogusto casalingo. Il territorio è, ovviamente, quello dell’hardcore ostile a qualunque tipo di orpelli e compromessi.

Il punto di vista, è quello di chi continua a dedicarsi con passione a una musica che sembra non interessare più a nessuno, sentendosi in parte defraudato dei propri meriti e tradito da chi si è diretto altrove quando ha capito non ci fosse più trippa per gatti. A questo si alterna una vena intimista, figlia di chi dai venti è passato ai trenta e fa i conti con le proprie scelte, e un po’ di sana critica a una società perennemente sull’orlo del baratro. Oltre che al microfono, il duo si alterna alle strumentali e chiama a intervenire anche figure ben note agli affezionati del genere: Turi, Lugi, Phase II, Soul Boy e Moddi. Un pugno nello stomaco che dosa sapientemente veleno, sorrisi e lacrime, ma che rimarrà una parentesi isolata nei percorsi degli autori. Decisamente da rispolverare.

Microspasmi – 13 Pezzi Per Svuotare La Pista (Vibra Records, 2003)

Un aspetto incredibilmente fastidioso nella percezione degli ascoltatori, è vedere troppo spesso relegata la figura del beatmaker a un ruolo di secondo piano rispetto al rapper. Stiamo comunque parlando di musica, anche se di un genere in cui le parole hanno un peso maggiore che in altri, e non porre attenzione all’operato di chi assembla le strumentali, registra e mixa i pezzi, rappresenta una visione miope e parziale della faccenda. Non vedere annoverato questo disco, tra quelli che hanno alzato e di molto l’asticella del livello medio delle produzioni nostrane, poniamo ad esempio: “SxM” dei Sangue Misto, “Dritto dal cuore” dei Next Diffusion e “Novecinquanta” di Fritz Da Cat, è semplicemente vergognoso.

Sia ben chiaro: non voglio assolutamente sminuire il talento di Medda, tantomeno il suo timbro piacevolissimo da ascoltare, la sua attitudine al rap innegabile e la sua sanissima propensione a non prendersi mai troppo sul serio, intrattenendo con simpatia e intelligenza. Ma se dovessi trovare un’etichetta per identificare questo lavoro in maniera netta e inequivocabile, non avrei dubbi: è il capolavoro di Goedi. Il sound è incredibilmente caldo, corposo, avvolgente. Oltre a dimostrare di avere assimilato benissimo la lezione dei maestri d’oltreoceano della decade precedente, il producer lombardo ha il coraggio di osare, giocando con soluzioni electro con notevole anticipo sui tempi. Si sta vociferando, proprio in questi giorni, di una sua prossima ristampa su vinile. Speriamo in bene.

Artificial Kid – Numero 47 (King Kong Posse, 2008)

Anche se considerato dagli stessi autori più che altro un divertissement, l’irrequieta e sferragliante creatura concepita da Danno, Stabbyo Boy e DJ Craim, costituisce il più fulgido, se non addirittura l’unico, esempio di contaminazione di rap con suoni industriali e immaginario cyber punk, su suolo italico. Figlio tanto dei libri di Philp K. Dick, quanto del sound di El-P e della Def Lux, l’album è un concept ambientato in un’ipotetico futuro distopico, che si rivela tragicamente simile alla realtà odierna. Poco suonato in giro, ristampato di recente, all’epoca dell’uscita fu accolto con freddezza, quando non addirittura con sufficienza, dagli addetti ai lavori. La scena, divisa tra tentativi per lo più dimenticabili di guadagnarsi un posto nelle classifiche, e ostinata rivendicazione di un passato irripetibile, finì per ignorare questa boccata d’aria fresca. Il sound distorto e (apparentemente) caotico architettato da Stabbyo, puntellato qua e là dall’enorme bravura di Craim ai giradischi, costituisce l’ideale commento sonoro alle narrazioni di Danno, diviso tra l’inquietudine e la rassegnazione per “..un’umanità senza più umanità e di un sole sempre meno sole e sempre più ombra”.

Questi sono, ovviamente, solo alcuni dei lavori che avrebbero meritato molto più di quello che hanno ottenuto. Ma non di certo gli unici. Me ne verrebbero in mente altri e probabilmente ne esistono anche di stupendi di cui ignoro l’esistenza. Ma l’argomento è vasto e complesso, anche se a molti piace semplificare con l’odioso sillogismo: “Se nessuno li conosce allora non sono bravi”. Questa è per il momento una retrospettiva su alcuni album che ho molto amato. Per scoprirne di nuovi magari, ci aggiorniamo al prossimo episodio della rubrica.

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