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Radura – La Fine Degli Uomini Faro

2017 - Dischi Decenti
post hardcore / screamo

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Tracklist

1. Pietre Di Carta
2. Acqualuna
3. Cadere
4. Rievocazioni
5. Uomini Faro
6. Coda


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Nell’ascolto di questo disco è consigliato dare una sbirciata al proprio scrigno personale: fate scorta di ubriacature solitarie, amori perduti, errori compiuti, debolezze e tempo perso, perchè la radura in questione è un terreno vischioso e impervio, dove sono le zone d’ombra a contornare il paesaggio in attesa di uno squarcio di luce a fungere da sfumatura. 

I Radura sono in 3, sommando le loro età ci aggiriamo intorno ai 60/65, e suonano uno screamo di derivazione post-hc con l’urgenza sgraziata di chi ha cicatrici ancora aperte, squadrando sommessamente dal faro dismesso le contingenze del gotha nostrano La Quiete-Raein, in questa sede ampiamente mitigate dalle velleità melodiche dei Suis La Lune. La narrazione musicale del disco potrebbe anche fermarsi qui; se avete familiarità con i gruppi soprammenzionati sapete cosa aspettarvi. 

Tuttavia sarebbe disonesto ritenere che si perseguano condotte imitative verso terzi. Del resto in un marasma dispersivo come il post-hc italiano (da intendere nell’accezione più generale possibile)  emulare l’apice dell’asticella non conviene a nessuno per evitare di farsi male con le proprie mani; molto più decisivo è invece costruire un vantaggio competitivo fondato su basi solide. Quelle dei Radura sono presto dette: lirismo, nei confini demarcati dal genere, e spontaneità. Il risultato è un disco auto-prodotto di 6 tracce con tre voci alternate, sospese tra lo-fi e ricerca melodica, in cui si cerca di mantenere l’impatto emotivo in perfetto equilibrio alternato a pochi scossoni di potenza come contraltare.  

L’errore è umano e il perdono è divino: non è dello stesso avviso Sisifo, fuggiasco scaltro e ingannatore condannato all’eterna fatica di trasportare un gigantesco masso lungo la montagna solo per vedere la sua fatica annichilirsi dinanzi a lui, il cui dramma mitologico apre il pattern con l’attacco di Pietre di carta e i suoi statement reiterati con incedere martellante. Nulla entra, nulla esce. Decisamente più morbida l’aura generale che avvolge Acqualuna impegnata a cauterizzare le ferite in attesa di Cadere, brano dai tempi più serrati e dinamici, a ricordarci che il tempo è la risorsa scarsa per eccellenza (“ho perso troppo tempo e lasciami cadere alla luce del sole”). 

La seconda parte del disco si rivela di più ampio respiro raddoppiando la durata media dei brani e introducendoci alla fisionomia degli uomini faro. Rievocazioni esaspera il senso di saudade di un passatista romantico. ”Sono solo una pozza d’acqua”; troppo piccola ma sufficientemente angusta da essere un’allegoria del mare in cui affoga l’uomo in copertina. Sicuramente il brano più eterogeneo del disco, in cui la varietà di soluzioni strumentali (sia ritmiche che armoniche) è messa in secondo piano dal latrato tormentato e sofferto del cantante. Gli Uomini faro non sono solo “corpi distesi nella terra” nostalgici e sofferenti; riconoscono il valore delle cose immateriali, anche e sopratutto del dolore, e ripeterebbero tutto solo per rimarcare il concetto che “senza di esse noi non saremmo più umani”, a costo di farsi distruggere dalla tempesta, fatta di incastri di chitarra e basso qui un po’ rubati ai Raein più recenti. 

Coda è a giudizio di chi scrive il momento più alto di questa piccola perla, perfetta summa poetica e musicale di quanto ascoltato. La tempesta è finita, vediamo se rivolgendo uno sguardo al cielo riusciamo a scorgere la luce. Ancora nuvole grigie. La fase finale della crescita di un uomo faro è l’accettazione: capire di avere sbagliato e comprendere di essere soli. “Nulla entra e nulla esce”, ancora una volta.

Non siamo di fronte a un capolavoro; trattasi di un disco onesto come ne escono trenta all’anno che ma può ambire, per gli amanti del genere, ad essere il preferito rispetto agli altri 29. 

La fine degli uomini faro  è un esordio (se escludiamo l’EP anonimo datato 2016) acerbo , assolutamente imperfetto, che postula più quanto si potrebbe dire che non quanto sia stato effettivamente detto. Ed’è assolutamente giusto che sia così. Lunga vita a questa Radura, che sia libera di proseguire nella direzione più proficua. 

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