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Ty Segall – Freedom’s Goblin

2018 - Drag City
garage rock

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Tracklist

1. Fanny Dog
2. Rain
3. Every 1's A Winner
4. Despoiler Of Cadaver
5. When Mommy Kills You
6. My Lady's On Fire
7. Alta
8. Meaning
9. Cry Cry Cry
10. Shoot You Up
11. You Say All The Nice Things
12. The Last Waltz
13. She
14. Prison
15. Talkin 3
16. The Main Pretender
17. I'm Free
18. 5 Ft. Tall
19. And, Goodnight


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Definire Ty Segall un semplice stacanovista risulterebbe essere il proverbiale eufemismo. Sin dal suo primo album del 2008 non ha accennato a fermarsi nemmeno un attimo. Dieci dischi in dieci anni più svariati EP, collaborazioni e amenità varie tra cui un lavoro a nome Ty Segall Band più un paio sotto il moniker Fuzz e non uno di questi che somigli al precedente. Certo, ci sono elementi comuni, ma è solo questione di minimo comun denominatore.

Se prendiamo in esame “Emotional Muggers” e l’altro full lenght suo omonimo uscito appena l’anno scorso ci troveremo davanti a due creature estremamente diverse tra loro: il primo è un sudicio mostro palustre che suona fottuto garage rock alle porte dell’Inferno mentre il secondo è un vellutato viaggio interiore fatto di carezzevoli sontuosità psichedelico-nebbiose.

E ora cosa? Ora è tempo di “Freedom’s Goblin”. Chi sia il goblin in questione non è dato sapersi ma nel 2017 i Primus hanno deciso di inaugurare un nuovo genere denominandolo “goblin rock” e allora prendiamolo in prestito. Dunque: diciannove brani di scintillante/putrido goblin rock di ragguardevole peso e bellezza. Torniamo immediatamente allo stacanovismo del nostro, perché di questi tempi non è proprio cosa facile trovare così tanti pezzi in un solo disco perché la gente si stufa molto prima, ma a Segall deve fregare ben poco di quel che piace o meno alla gente, anzi mi vien da credere che a Ty piaccia più confonderla.

Quello che vi apprestate ad ascoltare è il tipico album che rimette in riga tutti coloro che si sollazzano nel dire che il rock è morto crogiolandosi nel fatto che “ma una volta era tutto più bello” dimentichi del fatto che il cambiamento – o per meglio dire la mutazione – è naturale tanto quanto la morte, solo che troppo spesso i nostalgici confondono le due cose. Wolverine non è mica morto sul serio, è semplicemente tornato da un futuro post-apocalittico ed ora ha l’aspetto di un vecchio ma spacca il culo esattamente come prima solo che non si veste più come uno scemo e a ben guardare al rock è successa una cosa molto simile.

Così assieme ad una Freedom Band che sgroppa come non mai il simpatico artista californiano si diverte ad incorporare all’ennesima potenza tutte quelle influenze a cui è tanto affezionato e che il più delle volte vanno a parare nei late Sixties/early Seventies e ancor più spesso a cavallo di mostri proto-punk e infestazioni garage rock. Ci si ritrova dunque col piede inchiodato al pedale fuzz e con un poster degli Stooges appeso alle pareti del cuore (Shoot You Up e She non sfigurerebbero in “Fun House”) mentre la lingua indugia sul sapore metallico di una mazza da baseball autografata da Richard Hell e successivamente sparata a tutta velocità in faccia al lanciatore (When Mommy Kills You, la sporca Every 1’s A Winner).

Si può poi fare un salto al luna park su giostre ondeggianti per sculettare pur non volendolo (le sensuali e spooky al tempo stesso The Main Pretender e Despoiler Of Cadaver) e fermarsi solo per ammirare enormi ed epiche sculture di chitarre glam costruite ai lati di una qualsivoglia highway (Alta). Si sterza spesso e ci si ritrova in ameni campi di fiori giusto il tempo di inghiottire un acido o due ricordandosi del buon Beck di un tempo (You Say All The Nice Things) per ritrovarsi poco dopo a ballare con un marziano in una festa revival del fottuto far-west (The Last Waltz) e infine rilassarsi a bordo pista inalando effluvi elettrici che riportano alla mente i Sonics (Prison ma ancor di più la psicotica Talkin 3).

Forse leggermente prolisso per essere quel che dovrebbe essere, ossia un album da calci nel culo pur inframezzato da carezze atte a curare le natiche vessate dagli scarponi ma non sempre all’altezza delle aspettative, “Freedom’s Goblin” è comunque un prodotto ben confezionato e avviluppato in un filo spinato che probabilmente Lester Bangs avrebbe succhiato e ripescato sul letto di morte e che riconferma la capacità di Segall di mutare con classe e dovizia linguaggi a dir poco abusati.

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