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02/02/1988, “I’m Your Man”: LEONARD COHEN e la nobiltà della sconfitta

Leonard Cohen

I’m Your Man” è l’ottavo album di Leonard Cohen. Un album che in quel 1988 già anticipava i cambiamenti di un mondo in rotta di collisione con il suo destino. Un album che suona come nuovo, sin dalla prima canzone First We take Manhattan, con quell’ arrangiamento da “spaghetti western’’ e quel tocco alla Clint Eastwood o Sergio Leone. L’uso del sintetizzatore, a discapito della chitarra, come emerge dall’intervista rilasciata nel 1988 a Alberto Manzano in Spagna, è il vero leitmotiv dell’album, capace di regalare le sfumature musicali che si diradano dal tango lento o veloce, valzer, paso doble.

Bisogna subito chiarire un punto: il sintetizzatore non è un tentativo di entrare nel mercato della musica moderna, cosa che a Cohen non ha mai dato pensiero, poiché consapevole che la mutevolezza dei fan era cosi fluida e precaria che era inutile preoccuparsene. L’ironia e la disperata ricerca d’amore, sempre l’amore – perché era l’amore il mezzo attraverso il quale Cohen scriveva, amava, viveva, suonava – sono le colonne portanti di tutto l’album. L’ironia è visibile sin dalla copertina, l’amore udito sin dai primi testi. Entrambe danzano in quel Waltz atemporale che unisce nella memoria muta dell’anima queste due sfumature, sapendo che una prima o poi dovrà sconfiggere l’altra, e alla risata subentrerà nuovamente la tragedia. E allora, Come scriveva Lorca, poeta amato da Cohen che riadattò appunto Take this Waltz: “ Però il nostro ottimismo si trasforma in tristezza, contemplando le gocce morte sopra i vetri’’ (LLuvia, Libro de Poemas).

Ironia e amore. Soffrire e ridere. Un album che è più di quel che ne è traslato, un album che con il suono cupo e la voce roca di Cohen nella canzone che dà il titolo all’opera colora la percezione di quella polifonia politestuale che ha scandito sequenze cinematografiche tra le più disperate. Da “Secretary’’, in cui fungeva da sfondo ai primi albori di sadomasochismo accettati dal pubblico di massa, al più nostrano “Caro Diario’’ Di Nanni Moretti. E se Nanni se ne andava in giro per i lotti popolari ammirando una Roma estiva e semideserta sotto le canzoni di “I’m Your Man“, contemplando case che avrebbe voluto comperare e ponti che avrebbe voluto percorrere, cosi noi, non possiamo che non rimanere intrappolati ad ammirare la torre della canzone (Tower Of Song) , sperando che arrivi la risposta di Hank Williams, prima di pagare il prossimo affitto nella stanza della nostra solitudine.

I’m your Man’’ è la rappresentazione dell’umano indifferenziato agli albori della Genesi secondo Adonai Elohim, un tutt’uno con la donna amata, idealizzata, che si prostra al desiderio d’amare pur attraverso una maschera, (“And if you want another kind of love, i’ll wear a mask for you!), la violenza, la sottomissione, ma pur sempre con l’indomabile voglia di ululare alla bellezza. E la condensazione dell’ Altro nell’Altro, in tutte le possibili e plausibili forme –amante-schiavo-uomo. La continua ricerca d’amore e la sua continua disillusione nella sconfitta di tutto ciò in cui si crede, o ci si illude di credere. Perché anche la sconfitta, se non la sconfitta, è la vera protagonista dell’opera di Cohen. Perché tutto nasce da li. L’ironia e l’amore sono soggetti secondari se confrontati con il primo piano della delusione nei confronti di sé stessi e la granitica quanto assordante consapevolezza che “The good guy lost’’ (Everybody Knows) e che la condizione che più ci eleva è quella in grado di annientarci. Così nell’amore, così in qualunque altra cosa.

Eppure, in questa perenne sconfitta, non si situa altro che un desiderio insaziabile di rinnovo del sentimento. Come la poesia di Lorca, la poetica di Cohen affonda nei limiti d’una voce singhiozzante di silenzi. In quell’amore dove si vorrebbe essere tutto ciò che l’altro vorrebbe, ma le promesse sono sfumate al chiaro di luna e “la bestia non andrà a dormire’’. La bestia, che costringeva Leonard a ritirarsi a Idra per assimilare lentamente ciò che gli è stato tolto prima ancora di essergli stato dato, nella lotta continua tra autorappresentazione e autoesplorazione. “Stavo cercando di difendere tutte queste immagini di me stesso, finchè lo sforzo non è diventato eccessivo e sono crollato’’… “man mano che cadevo a pezzi, i testi sono emersi sempre con maggiore chiarezza’’ [Leonard Cohen, Il modo di dire Addio]

Leonard Cohen

Una continua disillusione e perdita di sé, dalla cui torre “you hear these funny voices’’. Cohen commentò la scelta delle parole di valenza profetiche usate nei suoi libri e testi, rimandanti quasi a Isaia, come una sensazione “che tutto stesse per cadere a pezzi’’. Disse che la politica non aveva più niente a che fare con lui, ma il poeta non può sottrarsi al tempo in cui vive, e Leonard aveva intuito che qualcosa, di lì a breve, sarebbe caduto a pezzi, sovvertendo l’ordine mondiale. Nonostante tutti sappiano che i buoni perdono, nonostante i sistemi esistenziali impostici, si instaura, nella desolazione del cuore, ancora una volta, la poetica della sconfitta, che si vorrebbe dimenticare, ma non si può.

Il 1988 fu l’anno antecedente all’anno che cambierà la storia dell’umanità, anno dove Gorbacev assumerà la carica di Soviet Supremo e un terremoto in Armenia causerà 30.000 vittime. Pur insinuando il mutamento, la vita non cambia la sua dimensione ontologicamente assurda, dove i media sono la proiezione della paranoia a cui tutti contribuiscono. Ascoltando Jazz Police si intuisce perché Tom Waits dichiarerà che “I’m Your Man’’ è il suo album preferito di Cohen. Ain’t No Cure For Love e I Can’t Forget sono legate dalla voce di Sharon Robinson, che collaborerà anche nel successivo album, “The Future’’, in Waiting for the Miracle.

I’m Your Man’’ è un disco in cui le voci e i suoni si sovrappongono nel tentativo di ricordarci che “Non c’è cura per l’amore’’, soprattutto per quello feroce, avido e viscerale che si prova nei confronti della vita dove, parafrasando lo stesso Lorca, i lamenti di un “cuore appassito’’, si mischiano al ricordo della fiaccola del proprio essere con la consapevolezza, recitata cinque anni dopo, in “The Future’’, che non è nella superficie o nella profondità, ma proprio nella crepa di senso dell’universo che filtra la luce. (There Is A Crack In Everything, That’s How The Light Gets In, Anthem).

Leonard Cohen

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