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“Third”, l’ultimo capitolo della storia immensa e silenziosa dei Portishead

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In occasione dell’anniversario dell’uscita di “Third“, ultimo album della fantastica band di Bristol, ripercorreremo l’uscita di un album che riaprì quel piccolo angolo del nostro cuore dedicato a loro e mai più rispolverato per ben undici anni. A parlarvi di questo album e della sua enorme attesa che lo contraddistinse, sarà il dualismo del ragazzo che per la prima volta riuscì nell’ascolto dopo anni di dolorosa attesa e scrisse qualche appunto sul lavoro, ed il ragazzo (perché di musica mai si invecchia) che ricorda con un poco di nostalgia quei tempi; perché, forse, l’attesa è davvero parte della storia e parte del piacere.

Gennaio 2018

I Portishead. Una di quelle rare e sacrosante band squisitamente dedite al creare dell’ottima musica puntando sulla qualità a discapito della quantità e mai, nemmeno nella fase più popolare della loro carriera, incerte sulle loro scelte di lavoro; nemmeno quando arriva il momento di ibernarsi artisticamente in un processo di catarsi mentale, lasciando scorrere tempo, molto tempo. In solamente quattro anni, più precisamente dal 1994 con l’uscita del capolavoro “Dummy” e concludendo con la pubblicazione del celeberrimo live con orchestra “Roseland NYC Live” datato 1998, i tre ragazzi della musicalmente fertile Bristol riuscirono a donare alla musica tutta – ed in particolare al trip hop – un groviglio di musicalità crepuscolari, perennemente intorpidite e dolcemente maledette. Poi, l’annuncio dell’inaspettata pausa ed una quiete che quasi fatalmente si prolungò oltre la normale simbologia data alla concezione di arresto, divenendo quasi insopportabile.

Quella stanza in cui i Portishead riscoprirono e saggiarono il sapore maledetto e cupo di una certa trama Hard Boiled (crimine, whiskey e sensuali dark lady, per intenderci), cominciò a riempirsi di pulviscolo e s’infiltrò nella mente di noi fan un clima d’abbandono. Oltre una decina di anni d’attesa – undici per l’esattezza – possono esser poco o molto tempo a seconda della situazione di cui si sta parlando; tuttavia quando si parla delle strabordanti ed elevatissime aspettative su di un gruppo che con un paio di album è stato eletto a caposaldo di un intero genere musicale, assieme a gente dalla rinomata carriera come Massive Attack e Tricky, la distanza temporale può farsi davvero pericolosa e rischia un devastante esito paragonabile allo schianto di un celebre -ma dal trascurato motore – aereo.

Non nascondo infatti che ai primi rumors riguardanti una possibile lavorazione su di un terzo album, la mia speranza prima implose nel mio cuore in un tumulto di gioia, finendo poi per arrancare nella paura più bieca, complici i mille dubbi che mi pervasero sin dai minuti seguenti all’annuncio. L’ostentazione di un certo sound, anche se di notevolte fattura, avrebbe forse rassomigliato ad un compitino di mestiere, confezionato con plasticosa materia? Persino loro si sarebbero chinati ad un mercato ormai sempre più vorace di brani da fast-food e melodie talmente commerciali da rasentare la volgarità per l’intelletto? Nella primavera del 2008, incredulo come fosse ancora irrealtà, mi apprestai quindi ad ascoltare “Third“, il terzo album dei Portishead. Ed ancora sovvengono memorie e sensazioni al solo primo sguardo della copertina. Essi conclusero questo lungo silenzio in modo chiaro, conciso ed assai minimale nella parvenza; iniziando  a mostrarsi in maniera differente semplicemente dalla copertina: sobria e senza sfarzosità di alcun genere. Ed i ricordi di quella prima volta riaffiorano.

Aprile 2008

La minimale simbologia di una P fusa ad un Tre lascia chiaramente intendere che i nostri di Bristol non hanno di certo bisogno di chissà quale presentazione, d’altronde, nessuno in questi anni ha mai scordato la loro magica bellezza. Sin dal principio, questo tanto bramato terzo viaggio, subito ci desta dalle storie noir e dai gracchianti grammofoni degli anni ’90. Il tempo cambia le cose, e la tristezza, l’urgenza dolorosa ed agrodolce del loro suono, cambia con esso.

Sorrido, l’oscura ansia d’ascoltare una band che malamente copiava se stessa, viene frantumata nei primi secondi. La prima traccia Silence ci prende per mano e ci porta in questo cambiamento in un modo fortunatamente sfumato. Sarà una delle pochissime tracce con dei rimandi ai precedenti album del gruppo, ma già l’ascoltatore vedrà dissiparsi l’affascinante lentezza dell’ormai passato Dummy con una chitarra ben più protagonista che in passato ed un clima di malessere ben più tangibile, meno rarefatto. La voce della Gibbons non è stata corrotta dal tempo, ed anzi, è rimasta come immutata negli anni in tutta la sua delicatezza e sofferente fragilità . Sarà lei a guidarci come un faro in mezzo ad un mare tempestoso di sonorità spigolose, fredde ed industriali come mai osarono in passato.In questa loro ultima fatica si avverte della perenne schizofrenia sonora di fondo, ogni brano è come un piccolo tassello asettico di un disordine mentale.

Pezzo chiave per carpire l’anima di “Third”, è Machine Gun: vero e proprio assalto sonoro di industrial, che in contrasto con l’impeccabile cantato pulito e trasparente di Beth, riesce nell’intendo di ricreare un’instabilità nelle orecchie di chi ne fruisce. Probabilmente il loro punto più alto raggiunto con quest’ultima fatica. Ci sono poi ovvie e ben accettate influenze dall’uscita discografica solista della cantante dissipati lungo l’album (quella piccola gemma di Out Of Season già citata ad inizio articolo, ispirata a Nick Drake, senza mai banalmente ricorrere al saccheggio ed al plagio), ed Hunter ne è l’esempio lampante prima che prenda un mood ed una direzione diversa, venendo irrimediabilmente operata e ricucita al servizio di sinistri suoni disturbanti. Forse l’unica vero brano candido e sinceramente caloroso è The Rip, a cui viene concesso l’ascoltatore di prender respiro in questo muro invalicabile di positivo scompenso sonoro.

Chiude l’album Threads che probabilmente riporterà tutti  (finalmente dirà qualcuno) ai nebbiosi fasti del passato, chiaramente la più vicina ad un certo suono che i Portishead con tanta delicatezza forgiarono. Un netto cambio di rotta quindi – quasi fisiologico per rimanere in salute dopo un decennio di pausa – segna l’insperato prosieguo della carriera dei Portishead. “Third” mostra chiaramente una facciata umana e musicale che può esser dolorosa in modo quasi tangibile al primo ascolto per chi aspettava questa release da “Dummy” ed al contempo ricercava (spesso e giustamente invano) quegli scenari d’abbandono dei primi due lavori.

Gennaio 2018

Raro caso di meritrocrazia musicale, superato questo scoglio e digerito il terrorismo sonoro che aleggiava in praticamente qualunque brano, ai tempi non si potè far altro felicitarsi all’unanimità di questo gruppo che con le sue sporadiche uscite riuscì sempre sfornare materiale d’altissimo altissimo. Nel momento in cui scrivo questo articolo sono passati dieci anni, e mai più si è spenta la fiammella che illumina quella polverosa e metafisica stanza del mio cuore, in cui il gruppo nacque e molto tempo dopo riuscì a reinventarsi senza perder lo smalto. E forse, un giorno, qualcosa potrebbe nuovamente muoversi; potrebbe ricrearsi quel che con tanta speranza raggranellai un decennio fa: piccoli granelli speranzosi riguardanti una band che, in confronto al restante panorama musicale, conta pochi proiettili sin’ora sparati. Quel che conta però, è che tutti i bossoli abbiano fatalmente centrato il nostro nero cuore.

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