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Interviste

Intervista ai DISH-IS-NEIN (DISCIPLINATHA)

Disciplinatha

In occasione dell’uscita dell’ep “Dish-Is-Nein” (qui la nostra recensione), che ha segnato il clamoroso ritorno – sotto nuova veste – dei Disciplinatha, abbiamo approfittato per incontrare Dario Parisini, Cristiano Santini e Marco Maiani. Ne è uscita una chiacchierata controversa e sincera, che mette bene in chiaro la visione forte della band bolognese sullo stato dell’arte (e non solo) nel panorama europeo.

Che cosa ha portato, lungo il vostro percorso artistico, alla trasformazione da Disciplinatha a Dish-Is-Nein?
Dario Parisini: Tante cose hanno confluito alla necessità di scrivere sotto un nuovo marchio, con tutti i rischi iniziali che comporta. In primis non sarebbe stato etico nei confronti di altri membri che con il loro lavoro e l’anima hanno reso onore e grande contributo a questa storia, ed ora non ne son coinvolti, per quanto disinteressati. Né io, né Cristiano, potremmo convivere sotto disistima di persone come Roberta Vicinelli, Valeria Cevolani e l’ex batterista, oggi scultore, Simone Bellotti.
Aggiungo il nostro non amare ripeterci, la nostra discografia ci testimonia, ogni disco è un “Mondo Nuovo” appunto…
Quindi la necessità/piacere di rinnovarci, di rilanciare, liberandoci dai legami/paragoni con la nostra storia, con ciò che è stato. Siamo in un’altra epoca e differente età. Epoca asfissiante e molto più autolesionista di quando abbiamo lasciato, ma anche stimolante, in divenire. La storia, il mondo sta correndo velocissimo, siamo in un neo fine ‘800, nel mezzo di una nuova rivoluzione tecnica con tutto ciò che ne comporterà per la condizione umana, di massa. Siamo tra i cingoli, ma al contempo come scampolo del benessere che conoscevamo, ci si concede futili sfumature umanistiche che aprono scenari etici non di poco conto.
Basti pensare al neo Eugenetica di rimando nazista dell’utero in affitto perorato e praticato dalle ricche élite liberal ex socialiste.
Troppo per star a casa in pensione guardando le proprie quotazioni su DiscoGs o ubriacarsi con le birre comprate dai cinesi sempre aperti sotto casa. È un’epoca interessante, instabile, in apparenza moderata ma estrema, realmente pericolosa e interessante per questo. Tutto è in discussione, il relativismo progressista può scatenare di ogni. Involucro vuoto, da riempire come un carrello della Coop e che sta a casa a postare gatti.

Per documentare questa rinascita avete scelto di fare uscire un EP, lo stesso formato del vostro esordio “Abbiamo Pazientato 40 Anni. Ora Basta!”. Qual è il trait d’union tra quel lavoro e questo?
Cristiano Santini: Direi soprattutto di natura emotiva…motivazionale … di “pancia”. Il primo EP, dai più fu bollato come “provocatorio”, ma in realtà non si trattava tanto di una provocazione quanto di una reazione ad uno stato di cose che trovavamo opprimente e soffocante. Pur con un approccio diverso (sono passati 30 anni … oggi siamo tre cinquantenni ed inevitabilmente filtriamo e metabolizziamo ciò che viviamo in modo diverso rispetto ad allora) anche questo lavoro nasce su presupposti in qualche misura accumunabili con “Abbiamo pazientato …” Si tratta quindi di una questione di natura attitudinale. Poi, quando ci
siamo resi conto che l’uscita di Dish-is-Nein avrebbe coinciso con il trentennale del primo Ep, non abbiamo resistito all’idea di farlo su vinile bianco.

“Dish-Is-Nein” vede la partecipazione di alcuni collaboratori di rilievo come il batterista live degli Skinny Puppy Justin Bennet oltre che al ritorno dietro al microfono di Valeria Cevolani e il contributo di Renato “Mercy” Carpaneto degli Ianva. Qual è l’apporto che ognuno di loro ha dato alla creazione dell’EP?
Cristiano Santini: Allora, Justin è un carissimo amico, oltre che un formidabile batterista … era da tempo che aspettavamo l’occasione per fare qualcosa assieme per cui, quando ci si è posti il problema di quale drummer avrebbe suonato sul disco, immediatamente ho pensato a lui … e come “da copione” ha fatto un lavoro egregio. Anche l’idea di chiamare Valeria, una volta che ci siamo resi conto della necessità di avere una voce femminile sul chorus di “Eva” è stata assolutamente spontanea ed immediata … io e Dario ci abbiamo messo circa 10 secondi per decidere. Con Renato il rapporto di stima e rispetto reciproco esiste già da diverso tempo. Lo considero un “esteta” della parola, ma non fine a sé stessa ma bensì finalizzata a raccontare una storia, mai banale né scontata. Sicuramente era l’unica persona in grado di collaborare col nuovo progetto Dish-is-Nein per la stesura delle liriche. E’stato un lavoro lungo e complesso fatto “a più mani”, ma rimane chiaro che il suo apporto è stato determinante e decisivo per la riuscita dello stesso. Quando si decide di avvalersi di collaborazioni esterne (anche se così esterne non lo sono state …) la qualità e le peculiarità delle persone coinvolte sono fondamentali: Justin come Valeria, come Renato hanno quindi portato un reale concreto valore aggiunto al nostro progetto. Per ultimo, ma non per importanza, non posso non menzionare tra le collaborazioni di rilievo di questo Ep il Coro di  Montecalisio. E’ grazie a loro che abbiamo potuto creare i due brani forse più interessanti e peculiari di questo lavoro: “La chiave della libertà” e “l’ultima notte”. A loro va tutto il nostro rispetto e la nostra gratitudine.

Nel disco c’è un riferimento esplicito ai Sex Pistols. Per caso il Punk, nel suo intento di rimanere superficiale e mandare tutto all’aria ha fallito? Ovvero: è forse diventato la parte più profonda di una musica più colta, sperimentale e ricercata?
Cristiano Santini: Ritengo che il punk, inteso come “movimento antagonista di rottura”, sia durato 5, forse 10 minuti. Battute a parte; la realtà è che il punk venne fagocitato molto velocemente dal music business dell’epoca, per divenire “banale” fenomeno di
tendenza … “rivoluzione pret-à-porter”, svuotato di qualsiasi connotazione antitetica allo status quo imperante. Diverso invece è il discorso relativo all’imprinting attitudinale e motivazionale di questo movimento, sempre attuale, oggi più che mai, schiacciati come siamo da quella disgustosa, fetida ed insopportabile “egemonia globale” del “politicamente corretto” … a qualsiasi livello. Quindi sì, da un lato il punk ha miseramente fallito; ma da un altro punto di vista rimane una “sana” attitudine… un gratificante dito medio alzato nei confronti del conformismo più becero…musicale, culturale, ecc. Non parlerei necessariamente di musica colta è ricercata, ma fuori dagli schemi, che “osi” andare oltre, fregandosene beatamente degli stilemi dominanti.

Disciplinatha

Nei vostri pezzi avverto la ribellione, ma non è un disagio o una chiusura nei confronti del mondo, piuttosto un superamento dialettico, un oltrepassare: non c’è tristezza o rassegnazione ma un traboccare della vita al di là del senso condivisibile, è energia, potenza che non deve poggiarsi sul futuro quello che ci consegnate?
Marco Maiani: Sicuramente non si tratta di un disco che sprizza della classica “ribellione esuberante” peraltro prerogativa ormonale dei giovani. Tentare di descrivere le angosce dell’Europa, il disagio del presente e il rammarico per la situazione in essere non significa affatto né approvarla né subirla supinamente. Lungi da noi il gusto decadente dell’autocommiserazione, del sentirsi paria, del drappello accerchiato che resiste ad oltranza a testa alta pregustandosi il martirio. 
La potenza ineludibile, con tutte le sue luci e ombre, del passato Europeo e bianco diventa inevitabilmente, nonostante tutta la potenza Hollywoodiana della globalizzazione spinga in altro senso, la base fondante del nostro futuro. Non ci salveranno i cinesi o i russi, tantomeno ancora una volta gli americani. Il futuro si consegna da sé ai posteri, la cosa più grave è la acritica opacità
mondialista delle giovani generazioni, che dal compiacente asservimento alle logiche del consumo internazionalizzato che con un clic spensierato compra low cost in Cina, passa all’acritico immondo gusto trash della canzone e look che ci giunge dal terzo
mondo. E’per questo che va sempre ricordato chi siamo, quali sono le nostre radici, per non portare il nostro/loro futuro verso un grigio melting pot culturale.

Esiste un vostro “simile” nel panorama artistico contemporaneo (o anche non contemporaneo)? Con “simile” intendo qualcuno che voi riconoscete affine nel modo di sentire? Se non ci sono nomi, potreste descrivermene le caratteristiche?
Dario Parisini: Personalmente e nello stretto, sento molto vicine persone con le quali mi son trovato ad incrociare le nostre capacità, trovando conferma che prima o poi alcune tipologie umane si incontrano, anche senza cercarsi. Mi riferisco ad una
personalità come Renato Carpaneto col quale ho avuto l’onore di collaborare alla stesura dei testi, o intelligenze come lo storico Alessandro Cavazza, che ha curato il nostro Documentario “Questa non è un’esercitazione” e col quale ho spesso piacevoli scambi su temi che vanno oltre le nostre persone, e da ex grafico del primo disco, come potrei non compiacermi del lavoro di Max Papeschi? Sento vicini artisti come Ryoichi Kurokawa o Herman Kolgen in quanto esprimono quella potenza ed avanguardia che solo un certo occidente ancora può. Continuo ad ammirare la cupa e controversa maestosità europea dei Laibach, che più passa il tempo e più si affila. Ma aldilà dei singoli, sono attratto dalle correnti, tutt’ora osservo, anche se raramente ascolto, la scena Metal. Ne apprezzo l’orgogliosa chiusura, l’evolversi dentro sé stessa, senza sbandate. Questo le garantirà sopravvivenza.
Nonostante tutte le menate della Ue, il culto del piccolismo minimal, del dettaglio artistico sensibile dell’ombelico, degli eterni giorni della Memoria, siamo Europei. Europei maschi, bianchi ed aggressivi. Comprese le donne e gli altri sé liberati da una
sciocca condizione di froci sindacalizzati da patronato. Sotto la cortina del politicamente corretto che ha avvelenato i pozzi col bromuro, amiamo come tutti i popoli esprimere potenza, orgoglio, identità, anche se oggi ci è impedito causa il tragico passato.
Tra i nichilisti europei (gli americani poco mi interessano) se proprio si deve, ed a volte si deve, voglio bene allo scomparso (coerente) olandese Bas Jan Ader e la sua etica scelta della sconfitta, del “failure” come gesto eversivo su una società che deve
‘’vincere’’ false battaglie.

La vostra musica nasce dalla passività nella ricezione emotiva del mondo o da una volontà attiva che caratterizza l’azione?
Dario Parisini: Credo la seconda anche se personalmente sono stato qualificato come ‘’nichilista attivo’’. Credo vi sia del vero. In ogni caso, probabilmente, da entrambe le opposte pulsioni indicate nella domanda. Ma resta il fatto che si tratta di due pulsioni che non si precludono, anzi, come lo Yin e Yang si passa da una all’altra, l’analisi e la descrizione dell’oggi porta  inevitabilmente ad una azione, anche se fosse l’immobilità, e non è il nostro caso.

L’arte per l’arte fine a se stessa o per migliorare il mondo?
Dario Parisini: L’arte da sempre migliora ed accompagna il mondo, anche al suo livello più funzionale, ovvero quella arredizia o di design, ma in primis quasi sempre porta giovamento a chi la esercita e a chi ne fruisce. Ha capacità terapeutica e medianica, mette in contatto il disordine con l’ordine, il sofferente col sano. ‘’Freud nega a sé stesso e riconosce al poeta la priorità per quel che riguarda la scoperta dell’inconscio, stabilendo in seguito tra sé ed il poeta un’affinità di intenti, con una differenza sostanziale per quel che riguarda il metodo: lo psicanalista intende dare un ordine ed individuare la causa di quelle manifestazioni psichiche che l’artista si limita ad inserire nella propria opera senza inoltrarsi in un concreto tentativo di spiegazione e categorizzazione’’.

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