Come ti senti amico, amico fragile
Il 18 febbraio 1940, in una domenica a via De Nicolay 12, nasce Fabrizio De André, figlio di Giuseppe De André e Luigia Amerio. Venne dato alla luce in quella Genova che svariato tempo dopo sarà protagonista, con la sua lingua locale, dello sdoganamento di alcune chiusure concettuali del cantautorato nostrano e del suo pubblico. Mai nessuno sino ad allora era stato tanto coraggioso ed ambizioso da solcare territori linguistici differenti dall’italiano, lingua romanza tanto cara anche all’uomo cui vi ho citato la nascita; nessuno prima di quel tempo abbracciò musicalmente in modo così caloroso un idioma spaventosamente anticommerciale, sulla carta fruibile solo nella sua città d’origine.
Quell’azzardo si chiamava “Crêuza de mä”. Era il 1984 e riuscì ad introdurre – in direzione ostinata e contraria – un nuovo e mai più abbandonato ramo del mercato musicale nazionale.
“Ho sempre avuto questa passione per il mediterraneo e col tempo siamo riusciti a mettere insieme alcuni strumenti alquanto originali come il bouzouki greco, il liuto arabo, vari mandolini ed addirittura zampogne” affermava Mauro Pagani, autore ed arrangiatore della notevole parte musicale che perfettamente sposa gli ispiratissimi testi del compare Fabrizio. Chiaro quindi che la gestazione di quest’incantevole frutto musicale marittimo richiese un lavoro a quattro mani sin dalla genesi dell’ideazione.
Da una rilevante quantità di tempo, più o meno da quando ho acquisito una cognizione musicale adatta a rendermi perlomeno un ascoltatore coscienzioso, tendo costantemente a svecchiare e nei peggior casi ad abolire alcuni pensieri e delle consapevolezze totalmente erronee nel mondo della musica. Esse – o le persone dietro di loro – fierissime di una contorta oggettività che ormai quasi oscura la realtà dei fatti, incrinano a colpi d’ignoranza la meritocrazia delle composizioni. V’è oramai da molti anni la cattiva abitudine di smerciare pessime considerazioni verso musicisti, i quali spesso consacrarono la loro vita all’arte del suono che seppur spesso realmente scadenti (aggettivo chiaramente fuori luogo in questa sede) necessiterebbero di argomentazioni ben più corpose. Gli stessi critici d’ignoranza che ben spesso sono esterni al suddetto mondo e che poco avrebbero da spartire sul tema, graziate e purtroppo invogliate dalla facilità del “click” e dall’immaterialità del dialogo.
Un sottile (benché tristamente ferreo) ed intricato filo unirà questa considerazione ad uno dei cantautori più amati, sicuro il più indimenticato. Ci condurrà all’argomento che ho reputato quasi doveroso affrontare il giorno in cui Fabrizio nacque e tutt’ora, immortale come i migliori, continua a crescere; come un dono realmente cercato dal sottoscritto quasi a discapito della consueta monografia rigonfia delle solite, giustissime lusinghe. Un triste collegamento quindi, intuibile ai più esperti e che con fervore cercheremo di stroncare.
E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci
La travagliata pubblicazione che venne riservata in Italia all’Antologia di “Spoon River” e l’incredibile impatto culturale che ne conseguì sono ormai aneddoti ben stampati nella mente di chiunque abbia approfondito i piaceri di De André verso la letteratura internazionale.
“Era super proibito quel libro in Italia. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […], e mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto” dichiarò in seguito Fernanda Pivano, giornalista e critica musicale che di spontanea volontà si prese l’onore – ed il rischio data la situazione politica del tempo– di tradurre la raccolta di poesie. Il piacere e gli spunti che un neo maggiorenne Fabrizio ne trasse dalla lettura, furono tali da dover necessariamente riadattare ed ampliare alcune delle poesie, nove per l’esattezza. Nacque così nel 1971 “Non al denaro non all’amore né al cielo”.
Quest’ultimo, capolavoro della musica Italiana e terzo concept album dell’artista, sotto quale aspetto rassomiglia a “Crêuza de mä”?
Ritornando alle mie aspre ma doverose considerazioni, il già menzionato filo verrà impietosamente snodato e tutto acquisterà senso, dando – si spera per l’ultima volta – voce e fiato alle pesanti ingiurie che negli anni son sempre circolate. Innanzitutto, quasi fomentando questi “untori dell’ignoranza”, vi è da precisare il numero di brani interamente nati e maturati per grazia della penna di Fabrizio, includendo solo coloro i quali son frutto di un’intera gestazione a nome del cantautore Genovese; essi ammontano ad una ventina se si includono alcune piccole parentesi come gli Intermezzi di “Tutti Morimmo a Stento”. Ebbene, incarnando una distorta visione che di certo limita l’arte, soffocandone il valore e riducendo il tutto ad una raccolta di cifre secondo un criterio di giudizio estremamente offensivo, è ben presto spiegata l’incredulità (inizialmente comprensibile ed accettabile) che spesso come un male degenera in sconsiderato disprezzo, senza minimamente soffermarsi sull’incredibile complessità di forme in cui l’estro può sorgere e realizzare che forse, solo un numero di certo non è.
Appurato quindi che se anche ad altri fosse venuto l’ingegno di trarre ispirazione da questi testi già portentosi per propria natura, nessun altro avrebbe sfiorato certe corde dell’anima come De André, e sarebbe impensabile se non improponibile un album come “La Buona Novella” (tratto dai Vangeli Apocrifi) in mani diverse. Questo non di certo per svalutare gli altri nomi della musica Italiana, quanto per rendere giustizia all’incredibile sensibilità letteraria del nostro cantautore. Non ci ridurremo poi a riportare gli elogi che egli accumulò negli anni, ci soffermeremo invece su alcune riflessioni ed inviteremo i lettori a riconsiderare le proprie convinzioni, spesso dettate con leggerezza. Eviteremo anche di scomodare nuovamente la Pivano, che arrivò ad ammettere le grandiose migliorie avute nell’album dedicato agli epitaffi di “Spoon River”, con questi ultimi ampliati e spesso quasi irriconoscibili. Soffermandoci su questo lavoro, ovviamente c’è da menzionare l’importante supporto di Giuseppe Bentivoglio e l’incredibile direzione d’orchestra di un giovanissimo Nicola Piovani; c’è quindi qualche carenza professionale nel trovare collaboratori? O è forse anch’essa una qualità, un grande esercizio d’intuizione che influisce nella bravura di un artista, originando lavori d’ottima fattura senza necessariamente sconfinare nello squallore delle percentuali di merito? “
“L’incubazione dell’album è avvenuta con un viaggio, un viaggio a sud. Ad un certo punto si decise insieme di andare con un’automobile verso su, senza realmente aver programmato e sapere nulla. Ci siamo trovati a Roma e siamo partiti […], l’idea era farsi raccontare le cose dalla gente e questo funzionò, funziono benissimo”. Ivano fossati, raccontando la genesi di “Anime Salve”, riesce in poche parole a rappresentare appieno l’acme di una cooperazione; spesso coronamento d’uno scambio di interpretazioni. Per quale ragione l’ultimo – incantevole – lavoro di De André porta il suo marchio sebbene frutto di due menti? Ci appelliamo a questo punto al tema portante dell’album, summa della sua carriera.
Ricorda Signore questi servi disobbedienti
alle leggi del branco.
Non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare è appena giusto
che la fortuna li aiuti
come una svista
come un’anomalia
come una distrazione
come un dovere
Sintesi di un’eterna zuffa contro il perbenismo, contro un disprezzamento quasi snobista che sempre più soggioga l’umanità, un mondo ipocrita e la sua caccia alle streghe; prostitute, omosessuali ed il diverso da scacciare assieme alla libertà d’esser liberi. Un’intera esistenza trapiantata nel testamento musicale del cantautore per grazia anche dei suoi collaboratori, non essenziali al fine del messaggio di De André, ma per nulla irrilevanti.
Quasi lapalissiano quindi far palesare una certa superficialità in chi sminuisce l’artista in seguito alla collaborazione d’altri o per delle riproposizioni di opere già esistenti, nel mentre un nobile pensiero viene genuinamente vincolato alle parole d’ogni brano assieme al cuore stesso del giocoliere di parole.
Signora, lei è una donna piuttosto distratta
Spesso e con poco garbo, articoli giornalistici e blog riguardanti il “caso De André” colpevolizzano di poca oggettività i suoi sostenitori, azzardando infantili collegamenti tra una sorta di “deificazione” ed una voluta reticenza sul tema del plagio. Ora, evitando di soffermarci sul labile confine che fraziona un vero plagio (e quindi un atto potenzialmente illegale) ad un omaggio peraltro spesso notificato dal cantautore stesso, ricorderemo la definizione del termine tanto inflazionato.
“Falsa attribuzione a sé di opere o scoperte delle quali spettino ad altri i diritti di invenzione o di priorità”.
Soffermandosi sul concetto di rivendicare una propria canzone, non si hanno echi di scandali avvenuto quando Fabrizio era ancora in vita, infatti l’ondata di indignazione è perlopiù avvenuta dopo la sua scomparsa. Per correttezza e buona informazione, sono certe invece alcune false attribuzioni alle musiche, errori poi corretti e che avvenivano soprattutto nei primi anni di professione.
Un chiaro esempio di tutto ciò è la melodia della celeberrima “Via Del Campo”, inizialmente accreditatagli perché creduta una melodia del XV secolo, essa era bensì proveniente da un brano di Enzo Jannacci. Quel che però la malafede non sussurra ai detrattori, è come in questo caso e in tutti quelli analoghi, non v’era nessun vero caso che sfociò nell’illiceità e nel cattivo gusto. Il cantante milanese riconobbe la buona fede e decise infatti di optare per il doppio accredito. Che ci fosse di mezzo il pubblico dominio o che venisse tutto concordato sin dall’inizio tra Fabrizio ed il vero autore, troviamo a fronte di tutto ciò un certo cattivo gusto ed un’ironica omertà sulla realtà dei fatti.
Evidente poi come la presuntuosa scelta di voler lasciare a tutti i costi un insegnamento snaturato sia oltremodo una perdita di tempo per la stessa persona che sterilmente giudica un lavoro. Infatti, rimuginando sui comportamenti degli individui descritti in questo articolo, approvo sempre di più la scelta di voler approfondire ogni aspetto di un musicista, anche fosse solo per stroncare sul nascere certe argomentazioni ed essere cosciente della vita di un artista (e perché no, istruire il prossimo di conseguenza). Non è quindi questa una condanna su delle lecite incertezze, bensì l’esortazione a riconsiderare il proprio ideale d’artista puro/duro; secondo quanto lamentato da alcune persone infatti egli dovrebbe limitarsi al proprio individualismo, a non accettare dai suoi colleghi un incontro di sonorità ed uno scambio di influenze. Il tutto è quindi riassumibile con l’immotivata ricerca di una scrittura illibata, esente da influenze esterne e mai tratta da lavori altrui. Cosa avrebbe pensato poi certa gente del suo – purtroppo a malapena delineato – album che secondo alcuni si sarebbe dovuto chiamare “Notturni”? Sempre secondo queste indiscrezioni, un requiem di fine millennio composto da quattro lunghi movimenti in collaborazione – sorridano i detrattori – con altrettanti personaggi del campo della musica. Purtroppo sappiamo tutti com’è andata a finire, rimanderemo quindi queste ipotesi ad altri circostanze. Oggi si accoglie la vita, non la morte.
Se mi vuoi bene piangi
Mi auguro che nel giorno del suo compleanno io sia riuscito a far tornare a galla i meriti che Faber negli anni si costruì e ci donò, senza mai precipitarsi ma anzi coltivando lentamente queste gocce di splendore. Approfittando quindi di questa importante occasione, ricordo ai lettori il più grande presente che mai si possa fare ad un uomo la cui arte rischia sempre più di disperdersi: siate ostinati a diffondere il ricordo e la realtà, questo rimarrà l’atto più devoto di un appassionato.
Lascio in calce un mio piccolo e modesto pensiero, che tratta in parte il tema più ricercato ed affrontato dal nostro Fabrizio, che immagino lassù in compagnia di Paolo Villaggio, ridendo con molti ricordi e senza nemmeno un rimpianto, come fu Il suonatore Jones.
Sogno Numero 3
Impietosamente un insegnamento mai appreso torna alle menti,
Ostentiamo ancora gli stessi errori.
Alimentando fuochi mai estinti e dimenticando cosa significhi esser clementi,
Laceriamo le future generazioni con i nostri orrori.
Rabbia racchiusa in una gabbia di sproloqui indecenti,
Caliginosi roghi sfumano nel nero tutti i colori
Umani esotici sterminati, simili dissimili derisi, sempre uccisi dagli accanimenti
Terreni d’infertili pensieri i loro boia, dispensatori del male come predatori
Insegneremo loro la democrazia dei venti
Sorseggeremo forse un giorno insieme, enorme tribù e mai più razze minori
Morbidi sorrisi dai contorni di colori differenti
Obbedienti alla stessa legge, dispensatori degli stessi valori.
Auguri Faber.