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Back In Time

“Machina/The Machines Of God”, come lacrime nella pioggia

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Il 2000 è stato un anno particolare per me. Un anno di passaggio e trasformazione da divoratore di hard rock Seventies e prog gentilmente infettatomi da mio padre all’apertura all’Altrove. E sì, devo ringraziare MTV. E sì, anche una mia amica. E sì, anche che avere 14 anni al momento giusto, sul limitare di un baratro invisibile in quel momento agli occhi, porta a voler catturare quanta più esperienza e bellezza possibile.

Così tra Brand New che manda in rotation Idioteque dei Radiohead e Somebody Someone dei Korn fa capolino una Videography di questa band atipica (per me) e obliqua (per tutti) chiamata Smashing Pumpkins. Il primo video che vidi fu The Everlasting Gaze e fu amore a primo ascolto/vista. Le chitarre a rasoio, la voce al limite del fastidio e ben oltre il naso tappato di Ozzy Osbourne – per me al tempo punto chiave della musica heavy a causa dell’affezione ai Black Sabbath prima era – che avverte “you know I’m not dead”, il (non)ritornello in odore di santità e dalle tinte epiche, la batteria brutale, il basso sepolto, i vestiti in pvc, la visione estatica di Melissa Auf Der Maur ed è stata infatuazione giovanile, anziché no.

Conseguenza? Mettere da parte i soldi della paghetta e andare a comprare “Machina/The Machines Of God”. Giusto il tempo di scoprire che la band si stava sciogliendo. Story of my life dato che tra 2000 e 2001 era successo con la scoperta di Rage Against The Machine e Primus. Partire dal fondo ha i suoi vantaggi uno su tutti poter guardare a mente fredda a tutto l’operato di un gruppo. In questo caso di una band che è nata in un momento di propulsione di sonorità di un certo tipo ma che si è sempre posta ai margini di tutto e tutti, dentro e fuori dalle tendenze e dai suoni che hanno caratterizzato un’epoca. Il lascito della creatura di Billy Corgan non fa eccezione.

Mentre quasi tutti gli artisti di un certo tipo al di là dell’Oceano erano intenti a sciorinare i propri “fuck you, motherfuckers” o il proprio malessere adolescenziale trasposto in età adulta – qui ci stavamo smarcando pian pianino dagli 883 e tutti si stavano accorgendo della nascente/morente scena alternative italiana – Corgan, Iha, Chamberlin e D’Arcy Wretzky (l’ex bassista delle Hole scoprii mio malgrado far parte solo del dopo) prendevano la Bestia da un altro punto di vista e con un piglio di cuore che ben pochi erano riusciti a cogliere. Il grunge sotterrato sotto tonnellate di emotività e sferzanti colpi melodici ma di ritorno nell’ennuì sempiterno della voce di William Patrick, l’uso di synth a modo e ben più incastonati nel tutto, come imparato a fare su “Adore” ma battezzati dal drumming del figliol prodigo Jimmy che era mancato a tutti più dell’aria.

Non è da tutti forgiare in un fuoco che mai si spegne hit perfette di inizio millennio e farlo tingendole di un dolore espressionista di gusto visuale proveniente da tempi morti e sepolti negli occhi del capobranco che sta dietro al microfono riuscendo a piegare la rabbia di noi giovani virgulti rabbiosi e pieni di bile. Strozzare il cuore del mostro con strazio pittorico a tinte chiare della difficoltà di essere vivi in un mondo che ingurgita e rigurgita putredine, lavare l’anima dalle impurità col tocco di un Dio distante e stanco. Costruire un mostro meccanico tramite le storture idiosincrasiche e pregne di distorsione capaci di evocare lo spettro di un Lou Reed vestito solo di una t-shirt dei Melvins. E infine di svegliare con una carezza acre dal torpore con manti d’imbattibile pop elettrificato e furente.

Non è da tutti nemmeno sbagliare apposta una produzione che frigge sui bassi e clippa a tutte le frequenze possibili e immaginabili e tirare fuori un capolavoro assoluto e chiudere – purtroppo solo momentaneamente – la propria carriera vestiti solo di un’armatura tanto fragile quanto impossibile da scalfire resa lucente dalle lacrime di Titani dimenticati dal tempo. Gli Smashing Pumpkins ci sono riusciti senza imparare una lezione importante: non si ritorna dal mondo dei morti senza pagare un caro prezzo.

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