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“The Downward Spiral” dei Nine Inch Nails compie 30 anni, il legame tra violenza e talento

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The Downward Spiral” è la felice combinazione tra violenza e talento. I due elementi sono quelli che più riportano al Trent Reznor di quegli anni. Molti già avevano avuto la possibilità di conoscere Reznor con l’EP “Broken”. Con questo seguito la sua carriera, inverosimilmente caratterizzata da album enormi, raggiunge il repentino apice.

L’attuale posizione di Reznor è invidiata e invidiabile. “The Downward Spiral” è diventato un manifesto per un’intera generazione di adolescenti in tutto il mondo. A quei tempi Reznor era più vicino a loro. Viveva più a contatto con quel mondo e con quella realtà. La musica dei primi anni ‘90 era in mano a un manipolo di artistucoli che si erano presi la scena nonostante la loro mediocrità. Qualsiasi contenuto ritenuto musicalmente apprezzabile era influenzato dalla pessima interpretazione di arte fornita dal grunge. Questo era, a grandi linee, il contesto nel quale fu pubblicato l’album. Se tutta questa mediocrità è rimasta fuori dal disco è perché qui siamo a un livello differente. Né inferiore, né superiore. Ci troviamo in qualche fantomatica sacca esterna di un multiverso che finisce per influenzare il nostro senza risultarne a sua volta influenzato.

Ci sono fondamentalmente 2 dimensioni che caratterizzano “The Downward Spiral”: quella scenografica, fornita grazie al soggiorno presso il civico 10050 di Cielo Drive, lì dove 25 anni prima si era consumato il massacro dei massacri, con l’omicidio di Sharon Tate e compagnia cantante; e quella puramente artistica, con la scelta di Reznor di farsi accompagnare alla produzione da Flood e da strumentisti come Adrian Belew.
La costante del disco, oltre alle capacità multitasking di Reznor di fare e disfare musica, è la presenza di Alan Moulder al mixer. Pochi capiscers fanno attenzione alla perfetta combinazione degli elementi. Flood e Moulder sono cresciuti praticamente insieme, e insieme hanno prodotto alcuni degli album più apprezzati, nonostante tutto, degli anni ‘90. A conferire grande potenza all’immaginario universo dispotico di “The Downward Spiral” contribuisce l’artwork di copertina prodotto dall’artista/musicista Gary Talpas, che non solo ispirò il riconoscibile acronimo grafico NIИ, ma si improvvisò anche tastierista nel tour per “Pretty Hate Machine”.

L’apertura del disco è affidata a quello che è, forse, una sorta di “sunto” dell’intero concept, il brano Mr. Self Destruct. Il background fornito dall’estratto del film THX 1138, uno dei primi girati da George Lucas, si ricollega perfettamente con la violenza sonora dell’intero brano. Alla fine di questo si colloca il confuso loop di chitarra registrato da Belew. Reznor con lui era stato piuttosto chiaro: “suona e basta”. In questo tipo di elemento, magari caratterizzato dall’innata cortesia che contraddistingue il consueto agire del genio di Mercer, c’è un’ulteriore spiegazione del mood dell’album.

Facendo attenzione alla successiva Piggy non può non venire in mente la chiusura di “The Downward Spiral”, affidata alla hit Hurt. I due brani sono gli elementi che fanno impazzire il manometro, in quanto più estranei rispetto alle sonorità degli altri brani, ma anche rispetto ai contenuti. La violenza che si respira piuttosto vistosamente negli altri brani qui è sottesa. Sono i due elementi che meglio chiariscono, se visti nell’insieme, i miasmi legati alla depressione. L’ennesimo tema ricorrente. Un giorno l’interruttore è acceso e un altro è spento.

Nell’ottica reznoriana la scelta di prelevare March Of The Pigs e Closer come primi singoli del disco era legata alla natura duale dei brani che potevano consentire al gruppo di raggiungere un equo compromesso. Su “The Downward Spiral” non c’è null’altro che somigli anche lontanamente al lento e ipnotico incedere di Closer. Le sonorità sono molto più vicine a quelle dei ‘00. Ad album come “The Slip” o addirittura “With Teeth”.
March Of The Pigs, invece, è stato iconico e lo è tutt’ora. All’interno c’è la fresca vitalità di uno che forse sarebbe potuto impazzire senza un autocontrollo collaudato. Dal vivo il brano è ancora più prestante e magnetico. È l’inno perfetto per quel periodo e riesce a essere ancora di un’attualità desolante.

Appena terminata Closer arriva il turno della più ritmata Ruiner. Il brano più sottovalutato dell’interno album e il più fondamentale. Qui viene fuori, per la prima volta l’”entità”, quella del distruttore. L’apertura è affidata al campionamento di alcune urla femminili. Impossibile ascoltare il brano senza ricostruire nella propria testa gli elementi scenici del famigerato luogo nel quale il disco è stato registrato. Forse Reznor aveva in mente proprio Manson, o un suo clone fornito di istinti ancor più bassi quando ha registrato l’album. Con Ruiner, oltretutto, si nota quanto Reznor sentisse suo questo lavoro. Nonostante la buona disponibilità di Belew, fu lui a scrivere e incidere l’assolo “gilmouriano” del brano. Lo fece quasi per scherzo, ma alla fine scelse di inciderlo perché lo riteneva “fottutamente grande”.

Nell’album c’è anche ottima coesione sonora nonostante la varietà. Big Man With A Gun ed Eraser sono inserite con il piacevole “cuscino” intermedio di A Warm Place. La melodia di quest’ultimo è chiaramente ispirata all’immediato periodo post-berlino di Bowie (c’è chi dice che sia praticamente identica a Crystal Japan). Poco prima di questi, il brano I Do Not Want This è la perfetta dimostrazione di come l’alienazione si leghi perfettamente ai momenti e alle condizioni dell’artista.

La battaglia di Reznor con la realtà termina con Hurt. “The Downward Spiral” termina e le enormi fauci di questo mostro dal fondo oscuro, comparso dal nulla nella vita dell’artista, interrompono qualsiasi contatto con la realtà, chiudendosi. Il clone di Reznor è morto per sua volontà e ha consegnato le sue memorie a chi rimane.

In questo lugubre viaggio tutto quello che tiene in piedi l’enorme apparato scenico legato al disco è la violenza. I tentativi, la continua ricerca di un luogo migliore rispetto alla realtà, hanno tutti portato a dimensioni caratterizzate dalla presenza della manifesta superiorità dell’istinto sulla ragione. Alla fine, con il passare degli anni, di questo lavoro è rimasto solo un bozzolo secco e squarciato. Da lì è uscito qualcosa che ancora sta cercando il posto, o la dimensione giusta per perdurare fino all’estinzione.

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