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“The Bends”, la nascita di un talento inarrivabile

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Al momento dell’uscita di “The Bends”, nel 1995, i Radiohead venivano etichettati dalla rivista britannica “Q” come i nuovi U2. Al di là delle affinità musicali, che comunque in questo disco ci sono ma non sono di certo portanti, la definizione non fu del tutto errata: mentre Bono e compagni di lì a poco avrebbero intrapreso la loro inevitabile discesa in un abisso di tronfiaggini ed autoreferenzialità, la band di Oxford, seppur con il suo proverbiale apatico distacco, si apprestava a raccoglierne il testimone, almeno dal punto di vista più secolare e mediatico, divenendo di lì a breve la rock band più importante al mondo. A differenza degli U2 però, i Radiohead, ad ogni uscita discografica saranno in grado di scombussolare la testa di ascoltatori e critici, riscrivendo schemi e stilemi dell’universo musicale.

Sono passati due anni dalla sbornia di “Pablo Honey”, o meglio di Creep, ma sembrano almeno 100: il passo in avanti rispetto al disco d’esordio – che a conti fatti in un impianto piuttosto debole mostrava solo un breve preambolo della storia immensa che sarebbe stata di lì a poco raccontata – è monumentale. Ancora una volta (e sarà più o meno l’ultima) sono le chitarre il punto focale dell’opera, e non poteva essere altrimenti, dopotutto siamo nel bel mezzo degli anni Novanta. Ma il loro utilizzo da parte di Johnny Greenwood, nel mezzo di arrangiamenti veramente obliqui, è unico ed indimenticabile.

La poetica dei Radiohead comincia a delinearsi in tutte le sue forme: la disillusione, l’apatia, la rassegnazione e la celata voglia di riscatto cantate da Thom Yorke si fanno strada pezzo dopo pezzo, creando un’atmosfera nichilista, malinconica, avvolgente e sinceramente pessimista, che regala un magico plus ad ognuno dei brani del disco. Non mancano nemmeno la voglia e la forza di sperimentare con i suoni: siamo certamente nel campo aperto del brit-pop, ma sono tantissimi gli elementi di discontinuità che la band di Oxford piazza qua e là in maniera quasi sempre convincente. La psichedelia, soprattutto, ma anche il folk, l’alternative rock e lo shoegaze: distorsioni deflagranti si alternano a suggestioni acustiche e a qualche primissimo ma significativo raid elettronico.

L’opener Planet Telex, con le sue chitarre nitide, furiose e compatte, su cui la voce di Yorke decanta ossessivo uno scetticismo irrimediabile (“you can force it but it will not come”) è il tratto d’unione tra il disco precedente e la nuova natura dei Radiohead. È un copione che si ripete felicemente anche in Just, che con il suo andamento atipico e altalenante mostra però una personalità ed una creatività fuori dal comune, nella schizofrenica My Iron Lung e nella ruffiana ma dinamica High And Dry, che dimostra come anche i pezzi più facili rispettino comunque uno standard ben al di sopra della media.

È però il pop oscuro e catastrofista di Fake Plastic Tree, Bulletproof, Street Spirit (Fade Out), Black Star a rappresentare la summa del talento compositivo della band di Oxford: sono ballate eteree, dilatate, paranoiche, per certi versi pesanti, dolorose e lancinanti, per altri leggere, condivise e rassicuranti. Non è semplice trattenere le emozioni al cospetto del lucido racconto iperrealista di Yorke, cantore della crisi globale, di un universo di plastica al collasso, nel quale nemmeno i sogni sembrano offrire una sicura via di fuga, ma anzi sono anch’essi complici e fautori del disagio.

Saranno questi i temi che i Radiohead svilupperanno con coscienza sempre maggiore e sempre diversa a partire dal successivo “Ok Computer“, inanellando una pietra miliare dietro l’altra. Ma di certo, ad ascoltarli a quasi 25 anni di distanza, i 12 brani in scaletta, seppur (col senno di poi) suonino a tratti comunque delle prove embrionali, non sfigurano mai, confermando anzi l’impressione che si ebbe all’epoca: “The Bends” è un’opera dall’importanza seminale, capace al tempo stesso di confermare e sovvertire lo stato dell’arte, lasciando trasparire in maniera sempre più netta le fattezze ingombranti di quel talento inarrivabile con cui chiunque avesse voluto avvicinarsi all’universo musicale avrebbe dovuto di lì a poco confrontarsi.

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