Ma i Mad Season sono stati altro, altro ancora, perché basta ricordare solo la fine poiché si finisce per parlare sempre e solo di quella. È la vita di un progetto collaterale diventato in fretta e furia qualcosa di ben più grande delle band di provenienza di ¾ dei componenti che nel ’95, anno di uscita del primo e unico lascito “Above”, stavano già dimostrando di avere il fiato corto su dischi decisamente più deboli dei loro predecessori – salvo al 70% “Vitalogy” dei PJ.
I Mad Season sono stati “Above”: un alieno atterrato da non si sa dove nella palude elettrica del grunge, tra le siepi riempite dalle telecamere di MTV e obliquo al divismo cobaiano e cornelliano – e pure vedderiano. Impossibile da inserire nel movimento lontano anni luce dagli altri side projects suoi cugini – first and above all i Temple Of The Dogs – e altrettanto impossibile da bollare in questo o quell’altro modo strambo, forse solo blues punto e a capo. Blues e sangue, sporco e devastato e voglioso di sobrietà ma mai così davvero lontano da essa. È invece alla lucidità espressiva che i quattro erano vicini, anzi, incollati piedi e mani.
Su questo album c’è tanto, tutto, di più. C’è un McCready al massimo delle sue potenzialità e da qua in avanti mai più così centrato – anche se “No Code”…- e pronto a tessere filamenti sporchi di lacrime e melodie nate e cresciute come radici blu(e); c’è un Barrett Martin pronto a fondersi con il basso anfetablues di Baker fino a far perdere la cognizione del tempo in una stanza che non smette di girare; c’è anche Skerik, sassofonista che il jazz lo ha preso e sfaldato a più riprese e che qui porta sapienza ed obliquità; e poi c’è Layne. C’è la sua voce, il suo afflato demonizzato e demonizzante, il suo corpo macilento e già ben oltre lo Stige che non impedisce alla sua voce di spiccare il volo sempre più alto, sempre più affranto, sempre più toccante, più e vero e marcio nella sua purezza ferina. Si dimena, si batte e scalcia e poi si accascia. Non ride, Layne, ma nemmeno piange, sanguina esangue e grida senza alzare la voce, unico della sua razza ad avere il divino nel cuore e il mostro nella mente.
Infine arriva Mark Lanegan e quando questi due si intrecciano nulla è più lo stesso di prima. L’asticella è più alta che mai e nessuno al mondo è più riuscito a superarla, nemmeno lo stesso mr. Screaming Trees. Le parole s’incrociano posandosi come neve lercia su di un paesaggio marcito dal cemento e avvelenato dagli uomini e, nonostante ciò, ne coglie tutte le sfumature immaginabili.
Come potrei spiegare a quelle creature tutt’altro che mitologiche – purtroppo – che sono i Millenials cos’è stato “Above” se pure io non faccio parte di quella “Generazione X” – nel ’95 avevo nove anni – che viene benedetta dallo stesso batterista della band nelle note di copertina dell’edizione deluxe del disco uscita nel 2013? Potrei, perché la mia di generazione – bruciata per tutt’altro tipo di motivo – è forse l’ultimo baluardo prima del baratro. O potrei anche non farlo e lasciarli vagare nel loro mondo di cliché e merda usa e getta, chi sono io d’altronde per salire in cattedra? In fondo “I don’t know anything”.
Potrei anche solo girarmi e guardare negli occhi chi lo ha capito e farmi rapire dalla nostalgia e dalla magia vomitata da questi dieci brani che non hanno ancora smesso di funzionare e semplicemente rimettere su quel pezzo di plastica tonda e chiudere qua la faccenda facendomi portare via dal ricordo di cose e persone andate. Penso che farò così.