Nessuna band come i Mad Season ha racchiuso in sé l’agghiacciante senso di sconfitta che gli anni ’90 della compagine grunge seattleiana si sono portati dietro, come fosse un fiume che ancora oggi porta sulle proprie acque placidamente i corpi senza vita di coloro che l’hanno resa celebre, amata e odiata al tempo stesso. Questo non solo poiché il gruppo è nato sotto il segno della tossicodipendenza in senso stretto, tra i corridoi di una clinica di disintossicazione in Minnesota, ma anche perché il suo battesimo è stato anche estrema unzione, con l’eroina a mietere le vite del bassista John “Baker” Saunders prima e la magica ugola di Layne Staley poco dopo.
Ma i Mad Season sono stati altro, altro ancora, perché basta ricordare solo la fine poiché si finisce per parlare sempre e solo di quella. È la vita di un progetto collaterale diventato in fretta e furia qualcosa di ben più grande delle band di provenienza di ¾ dei componenti che nel ’95, anno di uscita del primo e unico lascito “Above”, stavano già dimostrando di avere il fiato corto su dischi decisamente più deboli dei loro predecessori – salvo al 70% “Vitalogy” dei PJ.
I Mad Season sono stati “Above”: un alieno atterrato da non si sa dove nella palude elettrica del grunge, tra le siepi riempite dalle telecamere di MTV e obliquo al divismo cobaiano e cornelliano – e pure vedderiano. Impossibile da inserire nel movimento lontano anni luce dagli altri side projects suoi cugini – first and above all i Temple Of The Dogs – e altrettanto impossibile da bollare in questo o quell’altro modo strambo, forse solo blues punto e a capo. Blues e sangue, sporco e devastato e voglioso di sobrietà ma mai così davvero lontano da essa. È invece alla lucidità espressiva che i quattro erano vicini, anzi, incollati piedi e mani.
Su questo album c’è tanto, tutto, di più. C’è un McCready al massimo delle sue potenzialità e da qua in avanti mai più così centrato – anche se “No Code”…- e pronto a tessere filamenti sporchi di lacrime e melodie nate e cresciute come radici blu(e); c’è un Barrett Martin pronto a fondersi con il basso anfetablues di Baker fino a far perdere la cognizione del tempo in una stanza che non smette di girare; c’è anche Skerik, sassofonista che il jazz lo ha preso e sfaldato a più riprese e che qui porta sapienza ed obliquità; e poi c’è Layne. C’è la sua voce, il suo afflato demonizzato e demonizzante, il suo corpo macilento e già ben oltre lo Stige che non impedisce alla sua voce di spiccare il volo sempre più alto, sempre più affranto, sempre più toccante, più e vero e marcio nella sua purezza ferina. Si dimena, si batte e scalcia e poi si accascia. Non ride, Layne, ma nemmeno piange, sanguina esangue e grida senza alzare la voce, unico della sua razza ad avere il divino nel cuore e il mostro nella mente.
Infine arriva Mark Lanegan (arriverà sempre, anche ora che materialmente non è più qui) e quando questi due si intrecciano nulla è più lo stesso di prima. L’asticella è più alta che mai e nessuno al mondo è più riuscito a superarla, nemmeno lo stesso mr. Screaming Trees. Le parole s’incrociano posandosi come neve lercia su di un paesaggio marcito dal cemento e avvelenato dagli uomini e, nonostante ciò, ne coglie tutte le sfumature immaginabili.
Come potrei spiegare a quelle creature tutt’altro che mitologiche – purtroppo – che sono i cosiddetti GenZ cos’è stato “Above” se pure io non faccio parte di quella “Generazione X” – nel ’95 avevo nove anni – che viene benedetta dallo stesso batterista della band nelle note di copertina dell’edizione deluxe del disco uscita nel 2013? Potrei, perché la mia di generazione – bruciata per tutt’altro tipo di motivo – è forse l’ultimo baluardo prima del baratro. O potrei anche non farlo e lasciarli vagare nel loro mondo di cliché e merda usa e getta, chi sono io d’altronde per salire in cattedra? In fondo “I don’t know anything”.
Potrei anche solo girarmi e guardare negli occhi chi lo ha capito e farmi rapire dalla nostalgia e dalla magia vomitata da questi dieci brani che non hanno ancora smesso di funzionare e semplicemente rimettere su quel pezzo di plastica tonda e chiudere qua la faccenda facendomi portare via dal ricordo di cose e persone andate. Penso che farò così.