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“Perdition City”, nella metropoli del futuro degli Ulver

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Mutare drasticamente è un atto di coraggio non da poco. Dismettere panni che vestono comodi tra le algide distese innevate di una terra intrisa di sangue nero, mostri che si aggirano tra le candide foreste, imperatori oscuri rinchiusi in cattedrali gotiche e riti pagani ammantati di morte ancor di più. Smettere di camminare su un sentiero che si sta costruendo per batterne uno ancora inesplorato – almeno dagli autoctoni imbrattati di corpse/warpaint – è un vero e proprio act of love nei confronti della musica stessa.

Certo, incespicare nei primi passi mossi sulla nuova strada è inevitabile e gli Ulver lo sanno bene. “Themes From William Blake’s The Marriage Of Heaven And Hell” del 1998 era solo un primo e tiepido tentativo di discostarsi dalla propria natura più estrema, perfettamente adesa al corpo dei Lupi nei primi tre album della prima incarnazione della band. Ci vorranno altri due anni prima che Rygg e Ylwizaker riescano a vedere la luce al neon che illumina la città della perdizione, luogo in cui dimenticare ciò che si è stati per divenire altro.

Perdition City” riesce dove il suo predecessore non è riuscito ad esprimersi, parla una lingua sconosciuta ai più tra i propri simili, racchiude nel proprio DNA tutto l’opposto dell’espressione ferale di un movimento che inspira ghiaccio per emettere miasmi espirando. “Perdition City” è William Gibson che costruisce nel centro di Bristol una torre di cavi, motherboards e schermi rotti che mandano in heavy rotation un complesso di androidi innamorati e che permette di volgere lo sguardo fino all’Oxfordshire. Gli esseri che digrignano le proprie fauci nell’oscuro della selva hanno lasciato il posto a demoni contemporanei fatti di elettricità e ansie moderne. Il Diavolo diventa inconscio e allo specchio si riflette nella nostra immagine.

Il jazz si piega inginocchiandosi su binari elettronici abbandonati da qualcun altro vent’anni prima. Il trip hopping scava percorsi melodici tra sintesi e calore pianistico, la voce strappa la crisalide e diviene ciò che voleva già essere due anni prima mentre le grida del passato ancora ferivano la gola, finalmente guarita e pronta a scaldarsi e scaldare. “Absolute Music”, come tende a chiamarla proprio lo stesso Garm, ed è proprio ciò che è. Musica assoluta che tende all’assoluto e disegna l’infinito con una penna 4-D dove la quarta dimensione sta per l’anima in sintesi di esseri umani trasfigurati, proprio come in certe narrazioni spina dorsale del black metal.

Purtroppo percorrere la fulgida monorotaia del futuribile è un’operazione non lineare. Anche questo sanno bene gli Ulver che, pur continuando a descrivere un paesaggio sempre differente, non sempre sono riusciti a tenere fermo lo strumento “grafico” di cui sopra. Un’altalena umana, come tutto ciò che concerne il nostro essere vascelli del Verbo in Musica. “Perdition City” entra nell’età adulta con la consapevolezza di esserlo sempre stato e che ciò, invece, non muterà mai. Anche tra altri ventun anni.

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