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Back In Time

“Spiderland”, il tempo intrappolato nella tela di ragno degli Slint

Ci sono band che rimangono impigliate in tele di ragno antiche come il mondo e che sembrano essere lì da sempre e che ivi resteranno per altrettanti anni a venire. Band che non hanno il timore di restare immobili quando il mondo attorno si muove in piena psicosi senza un attimo di posa.

Nel 1991 – e ne parlo solo da osservatore arrivato al punto non meno di nove anni più tardi – il rumore e la frenesia creavano castelli immaginifici capaci di atterrire il più forte dei forti e il più granitico dei granitici, la musica si stava piazzando di traverso ad una realtà che asfissiava il debole rendendolo una belva irrequieta pronta all’attacco. Chi pareva essere calmo sono proprio gli Slint.

Nell’anno di uscita di “Badmotorfinger” e “Nevermind”, anno in cui tutti erano presi da statuari esseri anomali che bucavano lo schermo ignari di quanto il futuro aveva in serbo per loro, questi quattro ragazzi del Kentucky – che comunque non erano immuni alla fascinazione del movimento nato a Seattle – stavano fermi immobili mentre l’elettricità passava attraverso i loro corpi tutt’altro che cavi e portavano a compimento il proprio capolavoro di calma rabbia ossia “Spiderland”.

Se il precedente “Tweez” mostrava un’istantanea ben più irrequieta ed urgente, come se il punk si fosse immerso nelle fauci di una fiera malata benché famelica, il secondo album del quartetto è un capolavoro di stasi e orrore nevrastenico. Un paesaggio drenato dai colori e su cui il sole non osa posarsi per timore di essere a sua volta privato del proprio calore. Un paesaggio attraversato da un mostro solo che naviga attraverso la terra brulla e smossa dai mostri che un tempo l’abitavano.

Quando li vidi a Barcellona qualche anno fa stavano piantati ognuno al proprio posto, inamovibili, e pensai che non era cambiato nulla da quando suonavano nelle bettole assieme, che so, ai Jesus Lizard. Pensai che giovani e inconsapevoli non lo erano stati mai questi quattro. Pensai che per comporre certi brani e scrivere certi testi la testa doveva essere sempre stata piena di cemento decorato da una splendida sensazione di melancolia inarrivabile.

Il viaggio nel vuoto che è Don, Aman con il suo guizzo di ferale elettricità che subito si spegne soggiogato da un male occulto ed acustico, arriva scolpendo questo blocco mentale; la malvagità e il senso di perdita che obnubila il racconto del di Nosferatu Man con un vampiro emotivo infilzato di continuo dalle chitarre in una spirale infinita di dolore; il “I know it’s dark outside / don’t be afraid / every time I ever cried from fear / was just a mistake I made / wash yourself in your tears / and build your church / on the strenght of your faith” di Washer cantato con voce strozzata sì gentile e sì perduta e imbevuta di mal di vivere alla ricerca di uno spiraglio di vita vera; la natura stentorea e impenetrabile di Breadcrumb Trail; Good Morning, Captain e la sua strafottenza minimal post-tutto che per quasi otto minuti stiletta con un coltello arrugginito l’anima; gli spettri dell’americana atonale di For Dinner… e i suoi silenzi che dicono tutto crescendo e ottundendosi da sé; tutto questo groviglio intessuto da un ragno silenzioso è ciò che è e rimane in quella terra immaginaria di cui sopra che è lì per restare.

Spiderland” compie la bellezza di trent’anni e ancora chiunque di noi lo ascolti non può rimanere immune dal suo essere ciò che è: un disco che dell’immensità del tempo si fa beffe. Dopo non c’è stato più nulla e non è necessario che ci sia. Non è necessario un aggiornamento del suono, non è necessario aggiungere niente. In questo album c’è passato, presente, futuro ed infinito. L’assenza non è mai stata così bella.

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