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De Gregori (1978): essere se stessi fino in fondo

Francesco De Gregori

Schivo, introverso e sensibile, nel gennaio del 1975 Francesco De Gregori era un giovane cantautore di quasi ventiquattro anni che non aveva ancora conosciuto il successo commerciale e a cui, tutto sommato, non interessava neanche conseguirlo. Poi però, proprio agli inizi di quell’anno, con “Rimmel” ci fu la svolta: senza neanche volerlo, il terzo lavoro del Principe, diverso sì, ma neanche troppo, dai suoi predecessori, riscuote un successo clamoroso, tanto da catapultarlo presto sotto i grandi riflettori, mentre i suoi numeri, fra vendite e cachet, schizzano alle stelle.

L’idillio in realtà dura poco, giacché proprio questa notorietà apre presto ad una stagione di tensioni. De Gregori è un cantautore e, come tale, nei roventi anni settanta è percepito da molti come una figura dai gravosi incarichi rivoluzionari. In questo struggimento ideologico, De Gregori, come tantissimi altri suoi colleghi, finisce dalla parte dei cattivi: troppe metafore, troppo parlar d’amore per uno che dovrebbe combattere con durezza il sistema, troppe le duemila lire chieste per i biglietti dei concerto per un “compagno” che sembra solo arricchirsi coi temi cari alla sinistra senza di fatto metterli in atto. Le tensioni scoppiano la sera del 2 aprile 1976, al PalaLido di Milano, durante la seconda tappa del tour di “Bufalo Bill“, quando un manipolo di contestatori appartenenti alla sinistra extraparlamentare, come era in voga a quell’epoca, interruppe a più riprese il concerto, fino a quando, alla fine di un’esibizione surreale, De Gregori fu costretto a tornare sul palco. Lì venne sottoposto ad un altrettanto surreale “processo” politico, in cui gli esagitati gli presentarono il conto delle sue “mancanze” e lo invitarono a suicidarsi “come Majakovskij”. Lui, sbigottito, a fine serata dichiarerà: “non canterò mai più in pubblico. Stasera mancava solo l’olio di ricino, poi la scena sarebbe stata completa”.

Francesco De Gregori

La notte stessa De Gregori darà addio alla musica. “Ho perduto l’ispirazione”, dirà nei giorni successivi; la verità è che l’offesa e l’umiliazione subite sarebbero state un dolore troppo grande per chiunque, figurarsi per un ragazzo così sensibile. “Che gusto c’è a fare musica in una situazione del genere?” deve aver pensato in quel momento il Principe. Il successo, di cui tanto aveva diffidato fino ad allora, l’aveva infine tradito, così nel giro di un anno si fece una nuova vita, lontana dai riflettori: si sposa, diventa padre di due gemelli e lavora persino in una biblioteca. Tuttavia dopo poco tempo il treno della musica torna a prenderlo: troppo forte il suo richiamo per uno come lui, così, appena/ancora ventiseienne, prova a mettersi alle spalle l’accaduto ed anche per esorcizzare il dolore se ne torna in studio. Il risultato, coraggioso, liberatorio e sofferto, è “De Gregori”, uscito esattamente quarant’anni fa, nell’aprile del 1978.

Cosa sarebbe stato “De Gregori” (e, più in generale, dove sarebbe andata la carriera del Principe) senza i fatti del PalaLido non è dato saperlo. Sta di fatto che è proprio questa sua natura così travagliata, questo suo inserirsi in una fase della vita del cantautore così delicata e, per molti versi, irripetibile, a renderlo un album unico e speciale. Un piccolo capolavoro di malinconia, di quella che assale quando, dopo le lacrime, a poco a poco torna il sorriso, l’opera sincera e coraggiosa di chi si è lasciato alle spalle la tempesta, il dolore, per guardare finalmente avanti, consapevole però che la ferita non si rimarginerà mai del tutto e che lui, nel bene e nel male, non sarà più lo stesso. Sarà stata una sorta di convalescenza artistica quella che ha accompagnato la nascita di “De Gregori”, che però, piuttosto che renderlo un lavoro insicuro, ne ha affilato insospettabili artigli. Parliamo infatti di un LP ispiratissimo, che non sfigura assolutamente di fronte ai due capolavori che l’avevano preceduto (“Rimmel” e “Bufalo Bill“), ma che anzi con loro va a comporre una trilogia di un livello mai più eguagliato da De Gregori. Il tutto, in ogni caso, distanziandosi in molti aspetti dai predecessori.

Da dove nasca questa spinta a prendere le distanze non è difficile capirlo. È chiaro che non deve essere stato facile ricominciare: al di là delle contorte implicazioni politiche, il ritorno Principe dopo i fatti del PalaLido avrebbe in ogni caso catalizzato attenzioni di ogni sorta che solo un disco grande abbastanza da mettere la musica in primo piano assoluto sarebbe stato in grado di domare. Ecco, per fare ciò De Gregori avrebbe potuto rinnegare il suo passato, ricalcarlo pedissequamente, evolversi verso altre frontiere; niente di tutto ciò, visto che la prospettiva che stavolta verrà adottata avrà un criterio completamente diverso. Naturalezza, libertà, semplicità: è da qui che il cantautore riparte, spogliandosi delle rigidità che si era imposto nei precedenti album. A partire dalla copertina, con il cantante intento a calciare un pallone in mezzo ai campi, per un gesto liberatorio, spensierato; passando per l’essenza musicale dell’opera stessa; fino al titolo, quel “De Gregori” che vuol dire tutto e non vuol dire niente, che vuol dire soltanto essere se stessi fino in fondo.

Già, essere se stessi. In un’intervista ad Odeon, programma televisivo della Rai di quegli anni, proprio in occasione dell’uscita dell’album, De Gregori si ritrovò a parlare dei mesi trascorsi e di come fosse tornato a far musica. Ecco, quello che stupisce, oltre all’evidente commozione del cantautore, è proprio la naturalezza con cui il Principe racconta di essere tornato alla musica, come fosse un rispondere ad un istinto per lui innato che l’allontanamento forzato non ha potuto che acuire. Non che i dischi precedenti non rispondessero a quest’istinto, certo, ma erano più “mediati” nel risultato finale, più misteriosi, più introversi, là dove talvolta a parlare sembrava fosse più il De Gregori cantautore che il resto. Qui, invece, si ha spesso l’impressione di aver di fronte il De Gregori uomo, in tutte le sue molteplici sfaccettature. Ecco allora che quest’album è in primis il racconto, a cuore aperto, di se stessi, di come si è arrivati ad un momento difficile, di come lo si è superato e di cosa rimane, dopo la tempesta.

Potrebbe allora risultare banale citare Generale come brano-manifesto di questa nuova prospettiva, ma è pressoché inevitabile. Fra i pezzi più noti del cantautore, si tratta fondamentalmente di una ballata anti-militaristica, a riprova di quanto De Gregori non abbia rinnegato il suo piglio di condanna sociale, ma contiene anche molti punti di rottura col passato. La denuncia stavolta parte da un fatto autobiografico, intimo e personale quale l’esperienza di leva del cantautore, ora rappresentato senza mediazioni, senza ermetismo. Tutto intorno, un quadretto malinconico come rintocchi di campane, fra sensazioni e ricordi, in un tripudio di immagini familiari (il Natale, gli affetti, i tramonti, certi profumi) che non restano semplice cornice del messaggio, ma, anzi, contribuiscono a renderlo più vivido e sentito. Una condanna, sì, fortissima e convinta, ma anche un grande atto di umanità e di empatia, il racconto, soprattutto, di se stessi.

Un altro aspetto emblematico di Generale (ascrivibile, in realtà, anche a gran parte di “De Gregori”) è proprio la sua ariosità melodica, unita ad un arrangiamento decisamente ricco rispetto agli standard degli album precedenti. Sembrano infatti lontani anni luce i percorsi tortuosi di “Bufalo Bill“, sorta di punizione auto-inflittasi dal Principe per il successo ottenuto, gli arrangiamenti scarni e tutte quelle ristrettezze imposte come penitenza: Generale è in primis proprio la volontà di far pace con se stessi e col proprio mestiere, senza rinunciare a nulla.

Natale, già lato B proprio del 45 giri di Generale, è invece un’incalzante canzone d’amore sofferto, dolcissima, semplice ed essenziale come De Gregori non ne aveva forse ancora scritte. Certo, c’era stata Buonanotte fiorellino, ma qui musica e testo convergono verso un’inedita e rasserenata malinconia che ne fa una delle vere perle della discografia del Principe, che non a caso non l’ha mai persa di vista per le scalette dei suoi concerti. Il mistero e il simbolismo di cui tanto in precedenza anche qui vengono messi da parte, a favore di una misura dolce ed intimistica, per un brano che è un notevole sfoggio di doti compositive e di scrittura. “Se ti scappa un sorriso, ti si ferma sul viso quell”allegra tristezza che c’hai” è la frase che De Gregori dedica alla protagonista della canzone ormai lontana, ma, a ben pensarci, sembra quasi che la rivolga a se stesso.

Essere se stessi vuol dire però anche raccontare fatti della propria vita privata che prima si era sempre cercato di nascondere, filtrare e mediare. Ecco allora Il ’56, forse il pezzo più pop (!) dell’album, una scheggia di nostalgia quasi naif, in cui De Gregori – evento più unico che raro – apre uno squarcio sulla sua infanzia, raccontandone momenti e sensazioni. Poco importa che il ’56 fosse l’anno della rivoluzione ungherese e che quel “tutto mi sembrava andasse bene” potrebbe essere proprio una frecciata ai fatti dell’epoca: quando ricapiterà mai di sentirlo raccontare i momenti della propria infanzia? Altra apertura, anch’essa a suo modo rivoluzionaria, verso la dimensione privata è la delicata Raggio di sole, che è sì un universale inno alla vita, ma è anche e soprattutto la dedica dolcissima che il De Gregori padre rivolge ai propri figli appena nati, annullando definitivamente quel filtro di riservatezza che aveva sempre contraddistinto le sue opere precedenti. Il risultato, neanche a dirlo, è bellissimo.

Ma “De Gregori” è anche un atto di coraggio, che non rinnega nulla di ciò che gli era stato contestato: la presunta leggerezza da una parte, l’impegno sociale dall’altro. Ecco allora, in questa seconda prospettiva, allinearsi le invettive de L’impiccato, quasi presa in prestito da “Bufalo Bill“, tutta voce e pianoforte, tanta rabbia e poco romanticismo, e de La campana, scura e sospesa come un nodo alla gola, circolare e sofferta. Babbo in prigione va ancora per sottrazione, quasi uno dei giocattoli letali di “Francesco De Gregori” (1974), con i quali condivide l’aspetto esile, quasi una poesia del Prévert non romantico, in cui si mescolano tematiche sociali (la violenza domestica, in questo caso) con l’empatia per i protagonisti della vicenda.

Capitolo a parte meriterebbero le due versioni di Renoir, quasi speculari, a cavallo del lato A e del lato B, identiche nel testo ma l’una dall’arrangiamento malinconico e l’altra allegra e scanzonata, in forte ascendente dylaniano. Meriterebbero un capitolo a parte perché, oltre ad essere autentiche gemme del suo repertorio, di loro tanto si è detto e tante sono state le interpretazioni a riguardo, soprattutto in relazione ai fatti del PalaLido. A primo impatto siamo in una sorta di Atlantide 2.0, fra gli scenari malinconici e sofferti di un amore ormai sepolto, ma qui, al contrario, nel finale, più che una cieca odissea senza perdono, si trova proprio la pace con se stessi e l’accettazione del proprio passato.

Ora i tempi si sa che cambiano,
passano e tornano tristezza e amore,
da qualche parte c’è una casa più calda,
sicuramente esiste un uomo migliore.

Io nel frattempo ho scritto altre canzoni,
di lei parlano raramente,
ma non è vero che io l’abbia perduta,
dimenticata come dice la gente

Recita così la fine di Renoir, mentre si avvolge nel suo alone di mistero. Forse è l’unico pezzo davvero enigmatico del disco, forte com’è di una narrazione frammentata à la Rimmel, con cui condivide, almeno in superficie, anche la stessa natura di canzone d’amore. Tuttavia i richiami ad un periodo di dolore, alla solitudine, alle prese di coscienza ed al ritorno finale di una sorta di pace potrebbero alludere chiaramente al tormentato periodo all’epoca appena vissuto da De Gregori. Renoir trabocca di lividi e malinconia, mentre sembra quasi di vederlo, De Gregori, che si asciuga le lacrime, per uno dei brano cult del repertorio del Principe, imperdibile in entrambe le versioni.

Forse sarà una coincidenza, forse no, sta di fatto che il finale di “De Gregori”, affidato alla apparentemente marginale Due zingari, racconta molto di più di quanto si potrebbe a primo impatto pensare. Immersa in un paesaggio trasognato quasi dalliano, è una chiusura che condivide con la collega Santa Lucia (epilogo del precedente “Bufalo Bill“) una sorta di funzione catartica, pur non rinnovandone la solennità, già che Due zingari si mantiene su di un tono più sottile e dimesso fino ed oltre alla malinconica coda di sax finale, pur non perdendone mai in intensità. Potrebbe quasi essere un miraggio, un sogno ad occhi aperti, questa storia di due zingari che si allontanano dalla città, in una notte illuminata solo dalle stelle, innamorati sì, ma di un amore affilato e selvaggio almeno quanto loro. Ma mentre poi piano piano tutto intorno ricomincia la vita, ricominciano lo stress, il dolore e le contraddizioni, loro imperterriti si allontanano sempre di più, perdendosi fra i campi, lasciandosi alle spalle quel mondo folle di cui non si sentono figli.

Lucida e opaca, Due zingari è il risveglio dal sonno, la fuga dalla trappola, la presa di coscienza con cui De Gregori si rende conto della pericolosità del “sogno metropolitano” che lo aveva soggiogato e se ne libera nella stessa maniera in cui, al risveglio, ci si libera da un incubo. Un incubo, questo, che stava quasi per ucciderlo, quella sera d’aprile, sul palco del PalaLido, quarant’anni fa. Fortuna però che alla fine De Gregori sia riuscito a svegliarsi in tempo. Ora la notte per lui finalmente è finita, è mattina, il Sole splende ed è l’aprile del 1978: c’è ancora tutta una vita di musica davanti.

Francesco De Gregori

 

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