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Tengil – shouldhavebeens

2018 - Prophecy Productions
shoegaze / post rock / dreampop

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Tracklist

1. I Dreamt I Was Old
2. And The Best Was Yet To Come
3. With A Song For Dead Darlings
4. A Lifetime Of White Noise
5. It’s All For Springtime
6. All For Your Myth
7. In Murmur


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Begin with a riddle that none of us could solve”. Con queste parole si apre “shouldhavebeens”, secondo album degli svedesi Tengil, e miglior inizio non si potrebbe sperare poiché il disco che state ascoltando – o che ascolterete – è esattamente questo: un indovinello irrisolvibile.

Quello che il gruppo ci propone è infatti un puzzle incredibilmente intricato, un coacervo devastante di elementi che da composti vanno in mille pezzi per poi comporsi ancora per andare di nuovo in frantumi e tornare assieme. E avanti così fino ad indossare una camicia di forza.

Se con “Six” il quartetto aveva dimostrato una propensione debilitante a piegare la materia dillingerscapeplaniana – e tutto il post-hardcore in essa racchiuso sul fondo i ritmiche oblique – fino a farla toccare, quasi fondere, con il verbo dolce e carezzevole di Neige e Winterhalter, su questo nuovo lavoro la metamorfosi è inaspettata spingendosi oltre il limite del comprensibile. Il bozzolo metallico in cui è rimasta chiusa questa farfalla multicolore si è infine schiuso donandoci qualcosa di estremo che estremo non è. Anzi: esasperato.

La disperazione grida dal fondo di un cuore ingrigito dagli anni e il racconto si srotola come pergamena fragile e i tempi con cui si incatenano i sette brani ivi presenti sono qualcosa di impossibile. Tutto è storto, niente è dove dovrebbe essere ma come per magia in album come questo tutto funziona come dovrebbe. Per arrivare a qualcosa di dritto come una lama si deve attendere la conclusiva In Murmur, anche se gli inserti in psicosi blackgaze danneggiano abbellendo irreparabilmente il cristallo che racchiude il pezzo fino al sacrificio centrale sull’altare di Jonny Greenwood che ci obbliga ad ingoiare un mare di lacrime che esonda e la cui risacca crocifigge ad uno specchio.

L’incredibile voce di Sakarias Westman racchiude in se i semi di Jared Leto e Jonsi fino a farli sbocciare in qualcosa d’altro, di nuovo, di disastrosamente sentimentale. Arriva alle stelle e si imbatte nelle nebulose di rumore argentino della chitarra di Pontus Carling che crea mura alte diecimila chilometri. L’esasperante ed interminabile crescendo che sferza come pioggia incessante l’opener I Dreamt I Was Old fermandosi solo per sbattere contro una finestra incrinata per poi esplodere in una vertigine di schegge di vetro e legno. La sezione ritmica storta e incastrata di traverso sullo shoegaze a foggia immortale di It’s All For Springtime piega le ossa e taglia le retine.

Un incipit epico e black incorona l’estenuante aberrazione pop eighties di And The Best Was Yet To Come volgendo lo sguardo in direzione di Alcest, My Bloody Valentine e Slowdive superandoli in lungimiranza e coprendoli in una vivisezione di ritmo che mozza il fiato, spegnendosi e riaccendendosi di continuo come una corsa verso il nulla. Lascia increduli la cortina di chitarre trasfigurate che si innalza in With A Song For Dead Darlings e si pianta dritto nel cuore creando una breccia insanabile. All For Your Myth è una risacca dreampop romantica che rimbomba all’ombra di un fiordo fantasma cullando il narratore stanco, preparandolo al finale – di cosa, in fondo, non è dato sapersi.

Erano anni – forse da “Shelter” del duo francese di cui sopra – che non provavo un simile ventaglio di sentimenti estenuanti ascoltando un disco, che non rimanevo così sbalordito tanto da non riuscire a trovare il coraggio di scriverne per paura di rovinarlo – e forse in questo sono riuscito – ma “shouldhavebeens” meritava di essere raccontato. Fatevi un regalo e ascoltatelo distesi ovunque voi vogliate. Lo spazio profondo sarà a portata di mano.

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