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Verso Occidente “Evil Empire” dirige il suo corso

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Ci sono voluti ben quattro anni per far sì che i Rage Against The Machine dessero all’eponimo album un seguito. Quattro anni in cui si sono susseguite voci di tensioni, stemperate da Morello, alimentate dall’attivismo di De La Rocha e dai suoi viaggi ad esso legati. D’altro canto tensione è sempre stata la keyword perfetta per definire quanto i quattro californiani hanno esplorato e donato al proprio pubblico nella loro pur breve carriera che fosse essa lirica o prettamente musicale poco importa. I nervi sempre tesi e la rabbia in odore di “rivoluzione pop” protesa verso chiunque si affacciasse per più di qualche fugace minuto al verbo contra dei RATM.

In tanti vedono “Evil Empire” come un leggero passo indietro nei confronti della furia distruttivo-costruttiva del suo futuribile predecessore e di certo non ci si trova dinnanzi alla stessa intesa dose di urgenza debilitante, ma definirlo scarico o meno imponente è di certo una follia in termini assoluti – e vi assicuro che l’ho sentito dire. L’evoluzione del suono del quartetto passa attraverso soluzioni meno hardcore, più ragionate nel loro arrembaggio alla macchina del sistema e decisamente più protese verso un hip hop gonfiato di elettricità e distese furiose di groove.

Il contesto principale è quello di scagliarsi contro l’arrogante potere costituito degli Stati Uniti in opposizione alle minoranze interne e confinanti con il proprio territorio, le ingerenze dei governi a stelle e strisce e messicano nei confronti dello stato del Chiapas e le discriminazioni da essi perpetrate nei confronti delle realtà “indigene” e più povere del Paese sfociate nella nascita dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale che De La Rocha ha vissuto sulla pelle in un viaggio (nel ’96 era il quarto) che di certo ha contribuito sia a rendere ancor più lungo il processo di creazione del disco, ma in egual misura a renderlo tanto pregno di significati portandolo all’indigeribilità di chi non è avvezzo alla materia.

Le parole dunque sotterrano in qualche modo il contenuto puramente suonato, che si muove in una direzione meno esplosiva e più “sottolineativa” del lavoro perpetrato dal cantante. Lo sgolarsi di Zack si fa più affilato e meno hc, meticoloso nel suo definire la propria natura intrinseca da mc atipico senza stagnare né diluire per questo il proprio apporto “rabbioso” e forse alzandone il tasso di pericolosità come un fiume in piena senza mezzi termini. Gli incastri ritmici di Wilk e Commerford si agganciano al rhyming a doppia mandata, Morello seleziona e seziona il proprio sound costruendo modi sempre più atipici di intendere la chitarra resa ancor più graffiante e assurda di quanto non lo fosse prima. Scoppia meno e incide di più, scalcia e scalza il delirio e lo irrobustisce fino a renderlo morbidamente impattante. La produzione di Brendan O’Brien (che personalmente non ho mai patito e mai patirò) fa il resto.

Solo per fare alcuni esempio l’opener People Of The Sun la dice lunga su quanto appena enunciato con il suo incedere felpato e scratchante, sicuro di sé senza il bisogno di far deragliare il tutto come accadde con Bombtrack. È Bulls On Parade a far saltare il banco riportando l’orologio indietro dei famosi quattro anni: la penna dipinge lo scenario degli scontri e di un esercito che minaccia famiglie che in tasca non hanno né cibo né soldi bensì caricatori, pronti al peggio, la chitarra è il fucile della rivolta spianato contro l’oppressore, gli stop’n’go funkadelici che si scontrano con il vero pageiano e creano una tempesta al calor bianco.

Vietnow sputa in faccia alle radio destrorse e in botta da cristianesimi posticci in patria facendole a pezzi al ritmo di “Turn on tha radio / nah, fuck it, turn it off / fear is your only God on tha radio / nah, fuck it, turn it off” mentre sotto serpeggia un mostro meccanico e paranoico che sfonda il muro del suono. Down Rodeo è pressione pura che sfiata, si dilata e torna a schiacciarsi al suolo ed è il diario del viaggio in Chiapas di De La Rocha e quindi sfonda tutto, Tom si adegua e tira fuori le carte da cento di tutto l’album con il suo essere mutante: fa il dj, pianta chitarroni giganti in ogni angolo libero e poi ci ficca dentro un gusto melodico che non farà mai più la sua comparsa da queste parti.

Tutto è ridotto all’osso e sembra non voler mai esplodere alla sua massima potenza, ma è tutto volto a rendere l’hip hop libero dalla sua condizione faceta il verbo a cui volgere lo sguardo in un tempo il cui il punk – come genere ed intenzioni – è solo un ricordo lontano e quindi c’è bisogno di una nuova veste per dare ai giovani un motivo per mandare tutti affanculo ma a ragion data, non tanto per andare in giro a blaterare “fuck this and fuck that” come dei novelli, ridicoli ed anacronistici Johnny Rotten. Acculturare rompendo gli schemi e facendo rumore, tanto e tanto ancora ne sarebbe venuto, anche se non abbastanza. Dimostrare che auto-ghettizzarsi non sarebbe servito ad un cazzo.

Una lezione che nemmeno i RATM hanno imparato. Il muro tra voce e strumenti è sempre più alto e ci sarebbe voluto poco per vederne i risultati. La battaglia di Los Angeles si vedeva già all’orizzonte e a perderla sarebbero stati tutti. Intanto “Evil Empire” non è un disco minore – né mai lo sarà – è semmai il rivoluzionario pop di cui sopra che si riscopre e reinventa pur rimanendo fedele ad una linea che lui stesso ha contribuito a creare, assieme a molti altri “visionari”. Se il difetto imputabile è il suo essere meno pesante di “Rage Against The Machine”, beh, alla faccia del difetto. Trovatelo un altro album “hip hop” – le virgolette sono d’obbligo – così.

a cura di Fabio Marco Ferragatta


Lavoravo come PR per il Factory di Milano quando usciva “Evil Empire”; la scaletta musicale mi piaceva ma dei Rage Against the Machine passava solo Killing In The Name, capolavoro, d’accordo però, per prendere in giro il DJ dicevamo che metteva sempre su la stessa cassetta mista ogni volta (non me ne voglia chiunque fosse, se stesse leggendo queste righe, faceva un ottimo lavoro!)

Una sera, forse di fine aprile 1996, non ho resistito e dopo l’ennesimo coro, di “garraduuadeitolgià” trasformata immancabilmente in un insopportabile “vogliofareladoccia”, mi sono sporto nello gabbiotto del Dj e gli ho detto: “È uscito l’album nuovo!” “Cosa?” “Ho detto che è uscito l’album nuovo, non puoi mettere su sempre e solo Killing in the Name metti l’album nuovo!!” Non so come ma mi uscì un tono autoritario, il Dj mi guardò con sufficienza, mi fece segno di non rompere i coglioni e di andarmene. E così feci.

Le settimana successiva ero con il solito gruppo di smercio riduzioni e free drink e non potevo fare a meno di pensare al silenzioso rimprovero del Dj, sì, è vero, ero l’ultimo arrivato ma io mi sentivo pienamente parte di quel mondo. Comunque, la serata scorreva normalmente quando, ad un certo punto, non potevo credere alle mie orecchie: finalmente le note di Bulls On Parade inondarono il club di via Ricciarelli 9: la pista si riempì, tripudio e trionfo immediato ancor prima che Zack De La Rocha attaccasse con “The microphone explodes, shattering the molds”. Guardai il Dj, entusiasta ma umile e gli feci il pollice in sù, lui ricambiò.

Quella canzone, quella sera, mi fece sentire parte di un movimento, di un flusso di energia che circolava tra noi ragazzi e ci univa nella gioia e nell’ esaltazione di un futuro sconfinato: era cambiata la musica. Non posso affermare con certezza che tutti noi comprendessimo il senso di quelle parole ma senza dubbio ci comunicavano voglia di vivere e volontà di essere felici con la verità nelle nostre mani. Parole quali armi, guerre, terrorismo non ci avevano ancora ammaestrato ad aver paura, insegnandoci a rinunciare alle nostre libertà in nome di una promessa-sicurezza. Non c’erano i soldatini del potere, non c’erano ancora.

Mi auguro che ancora oggi i miei amici si ricordino, ascoltando quel pezzo, di cosa avevamo dentro, di qual era la nostra anima e che la paura non da’ mai buoni consigli e che chi governa sfruttando l’insicurezza lo farà sempre per i propri interessi e mai per il bene del popolo. Ci sono album che è bene tenere a mente come si rispolvera ogni tanto un dizionario o si rilegge un libro che è stato di insegnamento, perché quei pezzi hanno il potere di infondere velocemente il senso di unità.

La musica può essere un medium molto potente per tenere le coscienze vigili. “Evil Empire” ne è un grande, grandissimo esempio.

a cura di Massimo Quarti

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