Non sembra vero: finalmente, quattro anni dopo “What a Terrible World, What a Beautiful World”, i Decemberists sfornano l’ottavo disco solo due mesi dopo averlo annunciato, dopo averlo suonato a singhiozzo durante i loro ultimi live, senza vergogna e senza la pretesa di creare hype.
Tuttavia l’hype c’è stato e il tutto si è ridotto al ridondante quesito che aleggia sulle nuove uscite di ogni progetto di matrice folk-rock da un paio di anni a questa parte: “Ci sarà la svolta elettronica?”; ebbene la svolta non c’è stata e va bene così, perché, nonostante Colin Meloy non disdegni i synth e le influenze eccentriche di John Congleton, fresco di collaborazioni con gli Alvvays e i Suuns, si percepiscono ancora il carattere e il sapore che la band di Portland ha fin dal 2001.
Così, mentre ci si mette comodi e si preme play, si stappa una nuova bottiglia della stessa annata, fin dai primi sorsi si percepisce il corpo fermo e rotondo, le chitarre pulite e squillanti, le ritmiche decise, ma si percepisce quel retrogusto aromatico, le sfumature che sono frutto di un lavoro ispirato e indipendente, che non segue la moda pur trovando rifugio nella Capitol, che non vuole stupire, ma perfezionarsi e migliorare con il tempo; in questo modo i Decemberists alternano una scanzonata Everything Is Awful a potenziali hit catchy quali We All Die Young, in modo tutt’altro che spinto o artificiale, ma con una naturalezza insita non nuova a chi li conosce da tempo o li ha ascoltati dal vivo.
“I’ll Be your girl”, come lo stesso Meloy lo descrive, è un “apocalyptic dance party” raccontato da “psychedelic prophets”, spaziando fra temi ontologici con un pessimismo ironico, ridendo in faccia al tempo che passa e lasciandosi sedurre dalle sirene di Rusalka, Rusalka / The Wild Rushes, penultima eccezionale traccia di un album che non ha evidentemente bisogno di lustrini o pubblicità e che si dimostra una delle migliori produzioni di questo inizio anno.