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“Mezzanine”: sospensione temporale e nuove dimensioni

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Non si giudica un libro dalla copertina, figuriamoci un disco. Eppure, se mai artwork ha costituito una sintesi perfetta dei contenuti musicali che accompagnava, questo è senz’altro il caso: un grottesco insetto nero, stravolto nella sua fisionomia naturale da bizzarri innesti meccanici, su uno sfondo bianco immacolato. Traducendo tale dualità visiva in materiale audio: ritmi cadenzati e ipnotici, solcati da linee vocali in perenne bilico tra alienazione e catarsi, singoli radiofonici di facile presa inseriti in una cornice fondamentalmente oscura, strumenti suonati messi al servizio della duttilità dell’elettronica. Riconosciuto pressoché unanimemente come il lavoro più importante del (fu) terzetto di Bristol, a due decadi di distanza dalla sua uscita, “Mezzanine” continua a tenere banco.

Storicamente l’Inghilterra, luogo di passaggio, incontro e commistione di etnie e culture differenti, lo è sempre stata. Alle soglie del 2000 però, in pochi furono capaci di renderne il cosmopolitismo urbano e sonoro con lo stesso impeto creativo del trio composto da Robert “3D” Del Naja, Grant “Daddy G” Marshall e Andrew “Mushroom” Vowles. Le liquide pulsazioni della dub, da sempre care al collettivo, partito non a caso come sound system, costituirono il baricentro ideale per le enormi possibilità di contaminazione offerte dalla pratica del campionamento. Ma il gruppo decise di andare oltre, trasfigurando in quel trip-hop di cui era caposcuola già da anni, le atmosfere malinconiche e stranianti del versante più dark della new wave. Il riutilizzo di un elemento così genuinamente britannico, fece sì che tra i solchi dell’album, si possa riscontrare un ideale ponte di collegamento tra il decennio d’uscita e quello che l’ha preceduto.

Non dovrebbe quindi stupire che a regalare la celebrità alla hit Teardrop, sia stata la voce di Elizabeth Fraser, la quale coi suoi Cocteau Twins di succitato movimento fu tra i grandi protagonisti. Immortalata in un ineffabile e irripetibile momento di grazia, la cantante offre un’interpretazione toccante e sopra le righe, costituente il perfetto contraltare alla rarefazione del tappeto sonoro assemblato per l’occasione. Incantevole anche nella singolare ninna nanna hip hop, altra influenza cardine nella stesura dei brani, costituita da Black Milk. Su Group Four poi, si può riscontrare una vera e propria celebrazione della musica inglese: il rap di Del Naja, alternato ai vocalizzi della Fraser, poggia su una batteria mutuata dai Pink Floyd e ben tre campioni estrapolati da “Songs of Faith and Devotion” dei Depeche Mode.

Traccia dopo traccia, il melting pot musico-culturale messo in atto regala un momento di splendida fattura dietro l’altro. Man Next Door, con la star del reggae Horace Andy perfettamente calata nel ruolo di sciamano metropolitano, è un felice matrimonio di sonorità caraibiche e sample albionici (Led Zeppelin e Cure), Angel, love song a dir poco anomala, viene rischiarata nel suo cupo incedere dall’entrata di chitarre distorte, Inertia Creeps, sincopata e claustrofobica, spinge la ricerca sonora sino all’Estremo Oriente. L’anima più hip-hop del trio emerge prepotentemente, oltre che nella già citata Black Milk, nelle porzioni di registrazione prese in prestito a Isaac Hayes e Quincy Jones su Exchange.

La forza dell’opera risiede soprattutto nell’armonia con cui riesce a frammentare sonorità tanto eterogenee, svestendole dei propri stilemi originari e restituendole in una visione artistica vivida e coerente. Un’operazione certamente non pionieristica visti i tempi, forieri di dischi validi assemblati col medesimo modus operandi. Ma ciò che le conferisce un appeal sopravvissuto tanto bene alla prova del tempo, è la sua capacità di creare una sospensione del tempo, una dimensione onirica a sé stante in cui ascesa e scioglimento della tensione si rincorrono in continuazione. Il confronto tra culture per loro natura distanti tra loro, non va visto necessariamente come portatore di conflitti. Al contrario: se regolato con intelligenza e buon gusto, può divenire chiave di volta di qualcosa di nuovo e affascinante. Una lezione che in questi tempi di migrazioni massicce e retorica insopportabile, farebbe decisamente bene rispolverare.

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