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Back In Time

Back In Time: FUGAZI – End Hits (1998)

Fugazi

Washington nell’87 doveva essere una mecca plumbea e maledetta per tutti gli uomini di buon senso. Reagan al secondo mandato, oramai agli sgoccioli, al fine di far fronte a una potenziale recessione economica taglia i fondi per l’assistenza pubblica e aumenta le spese militari. Edonismo e individualismo sono le parole chiave di un ristagno prima culturale e poi sociologico. Si impone imperante il paradigma del libero mercato e del resto Friedman a tal proposito era stato chiaro fin da subito: non esistono implicazioni sociali per l’impresa ma solo responsabilità economiche circoscrivibili nella mera massimizzazione dei profitti. La croce resta ma Dio è morto. 

Black Flag erano sciolti da solo un anno ma il malcontento germinante negli schemi musicali dell’hardcore continuava ad avere ragioni profonde di esistere; necessitava soltanto di riscoprirsi in sincretismo con le nuove avanguardie. 

Fugazi furono l’esito naturale di quest’esigenza. Dalle ceneri di Rites Of Spring e Minor Threat (e Embrace) nacque un hardcore meno urgente, meno apatico dalla prospettiva esistenziale e più aperto a contaminazioni esogene, precursore contingente dell’emo e istituzione di riferimento dalle fattezze di Giano Bifronte: Ian Mckaye come profeta e ideologo, Guy Picciotto come performer teatrale e camaleontico. 

Mi si consenta di porre un limite a quanto succitato. Etichettare i Fugazi come una band hardcore o post-hardcore è opera riduttiva e priva di senso, dato che dalla caduta del muro di Berlino (“13 Songs”)  all’11 settembre (“The Argument”) le strutture musicali Fugaziane hanno mutato pelle rivestendosi sempre di nuovi sfarzi e trascendendo spesso regolarità formali di sorta: spurghi furibondi in pieno stile Hardcore, nenie letargiche, desolanti andature post-rock, sincopi noise destrutturate e molto altro ancora. Configurazioni olistiche maggiori della somma delle singole parti. Ciò che non muta, ma si rafforza in seno al secolare principio della coerenza, è la loro sempre identificabile poetica di cui il discorso musicale è autentica sublimazione, disco dopo disco senza mai retrocedere. 

Veniamo a noi: 1998, un quinto di secolo fa, Reagan è bavetta alla bocca con l’alzheimer. Ora c’è Clinton e prima c’era stato Bush senior, e con lui la guerra del golfo e l’invasione di Panama. I Fugazi cercarono di raccogliere i cocci del tour di“Red Medicine”, gigantesco per mole, e ne uscì fuori quella che a mio avviso è (a pari merito o subito dopo “In On The Kill Taker” del 1993) la gemma più splendente di una discografia pressoché illibata dal punto di vista qualitativo: “End Hits”.

Il titolo dell’album, e con esso altri aspetti di contingenza quali ad esempio la polmonite di Ian McKaye e la paternità di Joe Lally, fecero presagire uno scioglimento che venne presto smentito, nonostante poi non tardò troppi anni ad arrivare. Ad oggi si parla forse di quello che per strati non irrisori di pubblico e critica è ritenuto essere un’opera minore: Scaruffi gli da una sufficienza risicata, i vari ranked su internet lo collocano sempre in fondo, si parla di disco composto frettolosamente e poco coeso. Tutte balle.

End Hits” è l’album che i Velvet Underground avrebbero composto se fossero stati un gruppo post-hardcore. Un disco disarticolato e concettualmente affine ad un opus dadaista, fondato sull’uso sconsiderato dello strumento musicale ma al contempo mutuato dal disagio paranoide della propria epoca. Pezzi che sono scagliati contro l’ascoltatore come un proiettile, senza nemmeno il tempo di lasciarsi assimilare (cosa che non avviene quasi mai al primo ascolto), con i quattro di washington all’apice della loro sperimentazione stilistica in cui le contaminazioni si sprecano. Effettivamente non sorprende che sia uno dei loro dischi più sconsiderati, trovando (semicitando Walter Benjamin) nella diversione e non nella contemplazione la ragion d’essere del proprio pensiero musicale, scuola di comportamento sociale e antiborghese (il punk stesso sin dalle origini, volendo, si fonda su tale assunto). 

Fugazi

L’aria di cambiamento si sente sin dall’incipit. Nessuna partenza al fulmicotone. Siamo lontani dall’immediatezza di Waiting Room o dagli assalti frontali di Facet Squared. Break apre con una rapida progressione di note in palm muting per concedersi a un incedere cantilenante prima di esplodere nelle rapidissime nevrosi urlate di McKaye. Place Position rimanda un po’ a Red Medicine e mostra un Picciotto all’apice del suo istrionismo districarsi tra fraseggi di chitarra arabeschi, affrescando una diapositiva di sociologia urbana e delle migrazioni: “Tutte le origini sono accidentali. Non hai documenti e non ci sono strade” Recap Modotti è una ballata oscura e criptica a partire dalle liriche, intrise di simbolismo, più vicina a gruppi come Pixies o Sonic Youth. Il timbro di Joe Lally, meno abrasivo e acido rispetto ai due più titolati colleghi, non a caso rimanda indirettamente a quello di Thurston Moore. 

Già solo con i primi pezzi notiamo l’eterogeneità di una proposta che necessità di diversi formati-canzone per esprimersi a pieno. Il pastiche sonoro di No Surprise rappresenta probabilmente la vetta più alta del disco, se non il brano più rappresentativo: un autentico fluido di acido lisergico che anticipa le destrutturazioni psichedeliche di altri capolavori quali Closed Captioned (mia preferita insieme a No Surprise), in cui il merito principale va al dinamismo della struttura ritmica di Brendan Canty,  la allucinante e allucinata Floating Boy Pink Frosty (per me, quest’ultima, è la “The Black Angel’s Death Song” del punk rock); brani talvolta ballonzolanti e talvolta eterei in cui le composizioni sfuggono a reali classificazioni di genere. 

Echi del passato sono invece ravvisabili in tentativi di innalzamento del tiro. Five Corporations è speditissima e pesta duro come l’ardesia; sembra di esser tornati all’irruenza imberbe di “Steady Diet Of Nothing”. Ian urla affannoso , più di cuore e meno di diaframma, vomitando il proprio disprezzo per la crescita influente e graduale del modello corporativo delle multinazionali, anche se è più probabile un riferimento specifico a 5 multinazionali della carne che alla fine degli anni 90 costituivano circa il 20 % del PIL in america. I fregi chitarristici di Caustic Acrostic plasmano la fragilità metropolitana e l’inquietudine emotiva dei maestri Hüsker Dü e non sorprenderebbe se, magari con una produzione più fuzzata, entrasse Bob Mould a cantare sotteso a Picciotto. Foreman’s Dog segue il canovaccio dei Fugazi più hardcoreggianti puntando il dito contro la spettacolarizzazione del dolore (sarà quella sorta in seno ai Mass Media?) in una società alienata e sempre più militarizzata. 

Arpeggiator è un momento goliardico di gran classe in cui ci si prende un momento per cazzeggiare tra amici con gli strumenti. Il punk’n roll di Guilford Fall è forse l’unico momento sottotono del disco: divertente e genuino ma a conti fatti suona come una traccia minore di “Repeater”. Pochi fuochi d’artificio ma tanta spontaneità per il finale. Le liquide dissonanze noise di F/D sintetizzano i momenti più psichedelici del disco in una sorta di ballad trascinata sotto stupefacenti lasciandoci il tempo di metabolizzare quanto esperito in questi tre quarti d’ora. 

“End Hits” non ha cambiato il paradigma di un decennio indirizzato verso il nuovo millennio. Nè tanto meno ha cambiato il mondo. Non sta a me dire se abbia dato l’imprimatur alle nuove leve di provarci a mutare pelle in questa direzione, portando il post-hardcore alle estreme conseguenze nel compromesso con dub,jazz,post-rock,indie-rock,grunge e sopratutto psichedelia. L’unica cosa che posso dire è che un disco equipollente a “End Hits” in termini di sonorità e intenti non mi è ancora capitato di ascoltarlo. E che il messaggio politico dei Fugazi è qualcosa che manca inesorabilmente non nella musica, ma nel dibattito culturale contemporaneo a qualsiasi livello. 

“The sun came out and tore us up

It ripped the shit out of our behinds

And we drove home on towels

Off the heat of the seats

With sand in our teeth

All right, all right” [Floating Boy]

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