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Costruire per distruggere, vent’anni di “Rock Action” dei Mogwai

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Nel 2001 i Mogwai sono già un’istituzione del post-rock, genere musicale che la band scozzese ha, se non propriamente creato da principio, comunque forgiato a propria immagine e somiglianza. I primi due album “Young Team” (1997) e “Come On Die Young” (1999) sono infatti lavori già imprescindibili, che hanno disegnato i tratti e dettato le regole di un gioco tanto affascinante quanto difficile da padroneggiare, e in cui è altresì tremendamente facile incappare in tranelli noiosi ed insormontabili.

La musica degli scozzesi, dal punto di vista emotivo, è quanto di più potente ed intenso si possa trovare in giro, una finestra spalancata su di un universo di percezioni terrene ed oniriche che si fondono in tutt’uno travolgente ed armonioso al tempo stesso, un’epica delle emozioni che ad ogni brano si tinge di colori nuovi. Ma è anche un’entità complessa e dall’equilibrio fragile, che procede in perfetta autonomia rispetto alle tendenze e alle direzioni tracciate dal panorama esterno, risultando tuttavia ostile alla stasi e alle definizioni imposte.

Rock Action” è il primo germe dell’insofferenza dei Mogwai nei confronti della propria stessa creatura, e fin dal titolo mette in chiaro la voglia di distanziarsi dal prefisso “post”, in un desiderio di normalità e di evasione che è impresso con forza in tutti i suoi 39 minuti di durata. Come segno di ulteriore rottura, Stuart Braithwaite e soci interrompono il rapporto fin qui super-proficuo con la storica Chemikal Underground per avvalersi della collaborazione totale della Southpaw.

Sono solo 8 brani (di cui 2 in realtà fungono da semplici intermezzi), la cui principale novità è che sono canzoni vere e proprie, con una struttura quasi tradizionale, ben lontane da quelle atmosfere minimali in cui magici crescendo si schiantavano in fragorose esplosioni come onde di un mare orgoglioso.

Mogwai

In “Rock Action” l’energia non si sprigiona ostentando prepotenza, feedback e distorsioni, semmai si espande in un dilagare progressivo che cresce di intensità ascolto dopo ascolto. Quella dei Mogwai in questo terzo capitolo della propria discografia è una formula nuova e audace, che colpisce per la naturalezza con cui raggiunge il risultato coniando immediatezza e sperimentazione in un avvolgente processo di sottrazione.

Le chitarre, quasi mai distorte e al solito impegnate in un dialogo continuo ed ipnotico, sono costantemente immerse in un’atmosfera discreta ma incisiva di fiati, rumori di sottofondo, archi, synth, accompagnati diffusamente dalle voci, talvolta al naturale, altre volte sintetiche, quasi sempre assolute e sorprendenti protagoniste. C’è tutto questo nella splendida Take Me Somewhere Nice, diventata nel tempo uno dei pezzi più rappresentativi dell’intera discografia della band scozzese: la voce, che qui è nientemeno che di David Pajo (Slint), è distesa su un tappeto di chitarre acustiche, interventi elettronici e un tumulto gentile di archi ed ottoni. L’atmosfera è dilatata, fluida e sognante, difficile da descrivere a parole, ma tremendamente facile da avvertire sulla pelle.

Ci sono tratti di punteggiatura industrial nell’opening Sine Wave, in cui il mood generale deve però molto agli insegnamenti dei Tortoise, mentre Dial:Revenge – con Gruff Rhys dei Super Furry Animals – plasma con successo in una entità unica gli elementi di una ballata quasi indie-folk e l’inquietudine post-elettrica propria della band. Nei due episodi comunque più vicini alle sonorità dei primi due album – You Don’t know Jesus e la successiva 2 Rights Make 1 Wrong, non a caso gli unici due strumentali del lotto – va in scena ancora l’amara escalation di sommosse emotive già assunta come marchio di fabbrica della produzione dei Mogwai: c’è però, soprattutto nella seconda, una lunga suite di più di 9 minuti e tanti umori diversi, l’impegno nell’introdurre e integrare elementi diversi, come i già presenti archi, gli ottoni, il banjo e un coro iperspaziale. Infine, la conclusiva Secret Pint è un abbraccio caldo, sghembo e conciso su cui svetta un seducente e sinistro stridere di archi fantasmagorici, l’ultimo passaggio di un sogno sottile ma indimenticabile.

Talvolta sottovalutato, “Rock Action” è invece un disco fondamentale nella discografia dei Mogwai, un lavoro di sintesi in cui convivono il passato e il futuro e che segna con successo la prima di una lunga serie di magistrali operazioni di demolizione e ricostruzione dell’universo post-rock.

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