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Back In Time

Back In Time: QUEENSRYCHE – Operation: Mindcrime (1988)

Queensryche

Un vociare confuso e indistinto attraversa i corridoi affollati di un ospedale psichiatrico. All’altoparlante una donna chiama un certo dottor Davis: è desiderato al telefono. Qualcuno comincia a fischiettare un motivetto, mentre un’infermiera entra nella camera di un paziente ricoverato da poco. Disteso sul letto in un apparente stato catatonico e privo di memoria, un tossicodipendente chiamato Nikki guarda il notiziario con sguardo assente. La polizia ha sotto custodia un individuo sospettato di una serie di efferati omicidi che nelle ultime quattro settimane hanno sconvolto la città; Nikki ancora non lo sa, ma il giornalista alla televisione sta parlando proprio di lui. Ha bisogno di riposo, ma il sonno tarda ad arrivare. L’infermiera allora decide di iniettargli un altro sedativo: “Sogni d’oro, bastardo”. E proprio a questo punto, mentre sprofonda nei più profondi abissi dell’inconscio, le terribili immagini del passato iniziano a riaffiorare nella mente annebbiata di Nikki: “Adesso ricordo. Ricordo come tutto è cominciato. Non ricordo cos’è successo ieri, so solo di aver fatto quanto mi era stato ordinato”.

Queensryche

Ai Queensrÿche basta un minuto – tanto dura la intro I Remember Now – per immergere gli ascoltatori nelle atmosfere cupe e deprimenti che fanno da contorno agli eventi raccontati in “Operation: Mindcrime”, uno dei più celebrati concept album della storia dell’heavy metal. A distanza di trent’anni dall’uscita, la sua storia ricorda in maniera inquietante il nostro presente: in un’America piegata da corruzione e povertà, a fare presa sulla coscienza di una larga fetta della popolazione vi è uno spietato demagogo chiamato Dr. X. Nella rete di questo misterioso personaggio assolutamente privo di scrupoli cade l’eroinomane Nikki che, deluso da una società che lo ha abbandonato e spinto ai margini, si lascia abbindolare dai suoi slogan. Alcuni di questi fanno da sottofondo ad Anarchy-X, vera e propria ouverture “populista” del disco: Do we have freedom? Do we have equality? This country’s changing! It is no longer for all the people! It is for some of the people!

Nikki crede fermamente nei messaggi incendiari ed estremisti di Dr. X. Il testo di Revolution Calling descrive il suo processo di radicalizzazione; Geoff Tate interpreta alla perfezione la rabbia e il risentimento del protagonista nei confronti dei politici e dei media. La “chiamata alla rivoluzione” tuttavia si rivela ben presto un’illusione: tramite ipnosi il Dr. X manipola Nikki fino a fargli un lavaggio del cervello, trasformandolo in un sicario dal sangue freddo con il compito di eliminare i suoi numerosi avversari; un vero e proprio schiavo che commette terribili crimini senza neanche rendersene conto. Basta una parola sussurrata al telefono per innescare il meccanismo e diventare una marionetta alla mercé dei desideri del dottore: Mindcrime.

Inizia così la discesa agli inferi del povero Nikki. Il megalomane paranoico e assetato di vendetta che si presenta nel minaccioso uptempo di Speak non è più un reietto alla ricerca di verità, ma la sua condizione è altrettanto miserabile. L’unica ancora di salvezza è rappresentata da Mary, una ex prostituta diventata suora con la quale stringe amicizia. I due condividono la stessa sfortunata sorte: da una parte Nikki è schiavo del Dr. X e dell’eroina che lui gli fornisce, dall’altra Mary lo è di Father William, un prete corrotto che abusa di lei “sull’altare, come fosse un sacrificio”. Insieme cominciano a rialzare la testa e a cercare una via d’uscita; ma in “Operation: Mindcrime” non c’è spazio per nessun lieto fine.

A questo punto il concept assume i toni di una tragedia shakespeariana: Dr. X non può correre il rischio di perdere una pedina importante come Nikki e, per rinforzare ulteriormente il suo potere, gli ordina di uccidere Father William e Mary. Nonostante la trance, il protagonista riesce a trovare la forza di volontà necessaria per risparmiare la seconda. I tentativi di mordere la mano che lo nutre tuttavia si rivelano vani: ad avere il coltello dalla parte del manico è il dottore/pusher, che fa leva sulla tossicodipendenza del suo servo per convincerlo a non abbandonarlo.

In questa montagna di disperazione non poteva mancare la scoperta del suicidio di Mary. Nikki, temendo di averla uccisa sotto l’effetto dell’ipnosi, precipita nella follia: le urla tormentate di Tate nell’epico ritornello di Breaking The Silence sono le sue. Lo shock è insopportabilmente forte: in I Don’t Believe In Love, mentre la polizia lo porta lontano dalla scena del delitto, per non sprofondare totalmente nella pazzia Nikki prova a cancellare dalla memoria l’affetto per Mary, dicendo tra sé e sé di non aver mai creduto davvero all’amore. Ma è troppo tardi ormai: i sensi di colpa lo travolgono e lo annichiliscono, eliminando ogni ricordo del passato e delle sue tristi vicende. Nella conclusiva Eyes Of A Stranger lo ritroviamo quindi nella camera dell’ospedale psichiatrico dove lo abbiamo conosciuto. I sogni di rivoluzione e libertà sono morti insieme alla coscienza di Nikki che, con sguardo spento fisso nello specchio, non riesce a vedere null’altro che gli occhi di uno sconosciuto. Può esserci a questo punto una via d’uscita? Forse sì: cercare di rimettere insieme i pezzi del puzzle, sfondare il muro di dipendenza nel quale il Dr. X lo ha rinchiuso. Riappropriarsi dei ricordi rimossi e raccontare tutto dall’inizio. Finire e ripartire da quelle tre parole che hanno dato il via alla storia: I remember now.

Operation: Mindcrime” non è solo la punta di diamante della ricchissima discografia dei Queensrÿche, ma anche una tappa fondamentale dell’heavy metal anni ‘80. La struttura del concept e l’indissolubile legame tra narrazione e musica rappresentano i punti di forza di questa influentissima rock opera, la cui ombra si staglia sui Savatage di “Streets”, i Dream Theater di “Metropolis Pt. 2: Scenes From A Memory” e tanti, tanti altri. Pur con tutti i suoi cliché e i personaggi alquanto stereotipati, le vicende cantate da un Geoff Tate al massimo splendore riescono a catturare l’attenzione e a non sembrare mai banali; e non potrebbe essere altrimenti, con delle parti strumentali così ricche e cariche di un pathos quasi cinematografico.

Le chitarre di Chris DeGarmo e Michael Wilton, il basso di Eddie Jackson e la batteria di Scott Rockenfield marchiano a fuoco – naturalmente con il simbolo del TriRyche – un’imponente colonna sonora che attinge liberamente dall’immenso calderone hard&heavy dei due decenni precedenti. Ogni brano segue un percorso differente: alla potenza anthemica di Revolution Calling e della title track si alternano le atmosfere dark di Speak e Waiting For 22, l’AOR delle hit “I Don’t Believe In Love” e Eyes Of A Stranger, le cadenze epiche di The Mission, l’esperimento floydiano di Electric Requiem, il mix tra Black Sabbath e Carmina Burana di Suite Sister Mary e la velocità di The Needle Lies, palese omaggio a quegli Iron Maiden all’epoca freschi di pubblicazione di un altro caposaldo dei concept album heavy metal, “Seventh Son Of A Seventh Son”.

Una sterminata raccolta di spunti e influenze che i Queensrÿche riuscirono a trasformare in un’indimenticabile prova di omogeneità. L’unica pecca? L’assenza di un lieto fine: sia per gli sfortunatissimi protagonisti di “Operation: Mindcrime”, sia per la band stessa. Tra il vocalist Geoff Tate e il resto del gruppo è finita letteralmente a sputi in faccia, e oggi il quintetto non è più rilevante come lo era nel 1988. Per i nostalgici non resta che seguire l’esempio del povero Nikki: accontentarsi dei ricordi.

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