Pur non essendo mai stati i soggetti più originali dell’ondata nu metal calata sul mondo della musica alternativa di anni ’90/’00 i Coal Chamber misero in scena una sorta di miracoletto che a molti loro colleghi non toccò, ossia quello di comporre e registrare tre album a tutti gli effetti differenti l’uno dall’altro – per correttezza è giusto dire che dal discorso sono esclusi i capisaldi Korn e Deftones.
Se col primo album eponimo il gruppo di Dez Fafara ricalcava le orme a metà tra la creatura di Jon Davis e i Sepultura l’evoluzione arriva a rotta di collo sul successivo “Chamber Music” all’interno del proprio linguaggio furono inseriti elementi esterni alla pura violenza, anche grazie alle influenze del versante più oscuro della new wave anni ’80 (galeotta fu la cover di Shock The Monkey) e la presenza in studio di gente come Amir Derakh (già collega dell’Orgy Jay Gordon, co-produttore del debutto di cui sopra), Troy Van Leeuwen e P. Exeter Blue, figlio di Cher nonché frontman dei (tremendi) Deadsy.
Ma è con il terzo – e allora ultimo – album “Dark Days” che il suono chamberiano arriva a totale compimento divenendo unico nel suo non esserlo affatto. Tutte le componenti ultra-metal e quelle “goth” si concentrano in un unico punto nascosto nell’oscurità per poi collassare creando un buco nero di odio compulsivo e cieco. Le spooky vocals di Fafara sono più ispirate e demoniache (abbandonate le velleità di canto di pochi anni prima) che mai, le chitarre di Mig Rascon compresse all’estremo ed esplosive come tanti ordigni C4 piazzati nel condotto uditivo, il tutto accompagnato dall’ipnotico drumming tribale di Mike Cox (non aggiunge alcunché invece Rayna-Foss Rose, sostituita dopo le registrazioni causa maternità da Nadja Paulen).
La summa delle parti si fa oscuro blocco disintegrante lanciato a velocità mid-tempo in continui stomp che sottolineano un umor di morte mai così vicino alla materia metal vera e propria (che il cantante sperimenterà di lì a breve nei suoi Devildriver) ma che ancora tanto deve al nuovo metallo. Ripetitività incuneate in un vomitorio ipnagogico di elettricità imbrigliata in un eterno Día de Muertos che sembra non voler lasciare spazio a nessuno spiraglio di luce.
Something Told Me è il canto di un diavolo in non-evoluzione continua che ruota su se stesso in drone vocali-chitarristici che confondono e fanno vacillare; Fiend diventa il vessillo di una generazione morente, liquido e ipercinetico; la title-track è pura paranoia nu intarsiata di ferocia e insofferenza che pian piano detona in un chorus gargantuesco. Le penombre hip hop e infarcite di noise e fastidio raggelante in tempi talvolta spezzati di Alienate Me crea un solco incolmabile nell’animo e così fa anche la disturbante cover di Rowboat estremamente vicina al doom più putrido e infestato. Il terrore si fa pura oppressione sulla delirante Empty Jar con un Fafara mai così volto all’empietà e destinato ad un sempiterno Ade a cui continuerà a guardare anche oltre il 2002 – ma non in eterno purtroppo.
Sebbene come dicevo in apertura non si possa parlare dei Coal Chamber come di una band che abbia portato qualsivoglia apporto evolutivo al proprio genere è anche sì vero che non si può ignorare (o sottovalutare) un album di così pregevole fattura all’interno delle dinamiche di un movimento che spesso non si è rivelato null’altro che una façade di qualcosa mai davvero andato a compimento. Con la sua (im)pura virulenza, “Dark Days” rimesso sul piatto oggi può dare ancora notevoli soddisfazioni, soprattutto in momenti di alta e incontrollabile frustrazione.