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Retrospettive

Cosa sei disposto a perdere: una retrospettiva sui LA QUIETE

La quiete

Seguire una scena indipendente abitando in una grande città era diverso che farlo vivendo in un centro di provincia, durante i primi anni dello scorso decennio. Le difficoltà nel reperire musica e informazioni erano enormi, per chi si trovava nella seconda situazione. Noi di Novara, rinchiusi tra le montagne e Milano, pendolari perenni, devoti ad un periferico senso di appartenenza, angosciati dalla pianura e dai grandi fiumi, ci siamo divisi i compiti, in modo naturale: c’era chi ascoltava solo gruppi italiani, c’era chi sognava New York e non si perdeva un concerto hardcore, c’erano gli Skinheads e c’erano quelli che ascoltavano musica più commerciale come il crossover. Avevamo un comune sottosuolo, fatto di vicinanza, amicizia e impegno, ma nel campo degli interessi personali, tutto era più sfaccettato.

E poi c’ero io che, irreparabilmente succube di “Document #8” dei Page Ninetynine, non facevo altro che ascoltare emoviolence. Rimasi folgorato dai battiti di sospensioni in In Love With An Apparition, dall’arrendevolezza violenta e famelica di quella musica, ordinata, soave ma al tempo stesso distruttiva. Mi documentavo da solo sui gruppi Level Plane, Ebullition e Robotic Empire e seguivo la scena tedesca, andavo ai concerti di Yage, Books Lie e Transistor Transistor.

Ma i La Quiete. I La Quiete erano meglio dei gruppi americani e tedeschi. Suonavano più forte, erano più reali e venivano da una città di provincia, come me. Erano persone con le quali si poteva parlare, che incontravi ai concerti, e ai concerti ci andavi tanto, anche in settimana, perchè era l’unico modo per informarsi, per prendere una maglietta, per ascoltare quelle stesse canzoni che avevi faticato tanto a trovare. Il loro primo disco fu lo split con i francesi Acrimonie. Quel disco mi aiutò ad essere pendolare tra la provincia e la metropoli e a confrontarmi con le persone che mi sono trovato ad affrontare ogni giorno. L’ascoltare una loro canzone mi faceva sentire denso e culturalmente protetto. Come indossare una loro maglia: quella grigia con una figura orientaleggiante e la scritta “tanto punk” deve essere ancora a casa dei miei genitori, tra i poster arrotolati rinchiusi in un armadio in quella che fu la mia camera da letto.

Non mi è mai piaciuto l’emoviolence francese, ho ascoltato densamente solo qualcosa di Alcatraz e Finger Print e quell’album mi fu passato da un amico che viveva lontano da me. I brani dei forlivesi avevano dei titoli incredibili come La maestra non sa che illich mi ha parlato del programma occulto e Che tu sia per me il coltello, citazione dal romanzo di Grossman che avevo già visto campeggiare molte volte, passandoci vicino di sfuggita, tra gli scaffali delle immense librerie dei miei genitori e che non ebbi mai occasione di iniziare. Split, piccolo formato e titoli incredibili: ricordiamocene bene. L’album uscì per Life of Hate, un’etichetta gestita direttamente da Fabio, “Cebio”, chitarrista del gruppo, che quello stesso anno pubblicò anche il primo lavoro dei Raein, da sempre molto più caotici e slacciati rispetto ai La Quiete.

Life of Hate ed Heroine Records ( etichetta di Boris, il primo cantante del gruppo ) divennero automaticamente i miei punti di riferimento, perchè pubblicavano ciò che mi rendeva felice: To Die For, Death of Anna Karina e nel 2003 lo split dei La Quiete con The Apoplexy Twist Orchestra, un gruppo tedesco di cui ingnoravo l’esistenza. Ai bambini occorre educazione fu forse il loro primo pezzo da cantare a squarciagola, la prima canzone con un ritornello ben marcato, la prima loro canzone che ti stampava un irrimediabile sorriso sulla faccia. Il tutto sarebbe continuato con concerti ei quali si riusciva a parlare con loro, con i musicisti dei La Quiete, con concerti che finivano a torte in faccia che non avevano nè inizio nè una fine.

Ho parlato meccanicamente di musica, sino ad ora, ma ho parlato anche di condivisione. Una sera, poco dopo essere entrato in possesso del primo split, feci ascoltare La maestra al mio amico Nicolò, eravamo in macchina e stavamo aspettando che gli altri della nostra compagnia arrivassero, era un venerdì sera umido ma caldo, fuori stagione ed eravamo pronti a viverlo come un venerdì che arriva al termine di una settimana passata da pendolari. Nicolò, tornando al discorso sulla suddivisione dei compiti, è da sempre stato un patito dell’hardcore nuova scuola ma quella volta, mi ricordo come se fosse accaduto un minuto fa, mi disse che non aveva mai pensato che l’emoviolence potesse essere suonato in quel modo così metallico e picchiato, così diverso da ciò che si era da sempre ascoltato. Rimase divertito dal titolo una volta che glielo descrissi, ma il fatto che avesse apprezzato così tanto un brano di un gruppo lontano dal suo “giro” rese ai miei occhi i La Quiete addirittura indispensabili.

Un disco intero però non lo avevano ancora fatto. Avevano iniziato la lieve catena di pezzi strumentali, intitolati tutti Musica per un giardino segreto e numerati in ordine cronologico man man che le pubblicazioni si dipanavano, ma un album non lo avevano ancora scritto. Era come se vivessero in un perenne eccesso di presente, frastagliato e inintellegibile. Più di cinque pubblicazioni in due anni è una quantità di lavoro considerevole, ma eravamo lì tutti ad aspettare un disco solo loro, tale da essere coperto di attenzioni e sguardi. Che finalmente arrivò portandosi addosso un titolo epifanico, “La fine non è la fine“. Non avevano mai avuto il problema di trovare il titolo da assegnare a un disco, avendo pubblicato, dal 2002 al 2004, solo album condivisi con altri gruppi. E il primo fu subito accolto come una proiezione, un simbolo di struggimento e aporia. Ma finalmente, ora avevano anche loro un disco, su Heroine, dopo essere stati pubblicati per una vita dalle più famose etichette screamo del mondo.

Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo è la canzone del disco che ho sempre preferito, vuoi per la mia passione per Montale, vuoi per la lunghezza del pezzo, vuoi per la sua totale mancanza di direzione. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo credo sia la canzone dei La Quiete che più li rappresenti, perché senza essere noiosamente assertiva, spiega per filo e per segno come nasce una vita e come si possa disperdere. “Falsa sembianza. mortale illusione, Non uccidiamo ciò che di prezioso culliamo ancora fra le mani.” Rimbomba come un tragico romanzo di formazione, ti fa assporare il sapore salato della terra. Le cose materiali non vengono chiamate coi loro nomi, mentre all’evoluzione viene conferito un significato passivo il cui scopo viene ingabbiato, per pochi minuti, in una folle rincorsa.

Con la basilarità descrittiva dei loro titoli, i La Quiete diventano fondamentali per capire il presente e questa è una cosa importantissima: ascoltando le loro canzoni sono sempre stato sicuro del fatto che, prima o poi, arriverà necessariamente un’epoca in cui non avremo più tempo di ascoltare canzoni crescendo. Gagarin entra in orbita una volta e non si guarda mai indietro e “Il favoloso mondo di Amelie” ( film che ho sempre detestato) viene rintracciato geograficamente con la secchezza del punkrock. “Cerco la chiave di ogni mia mera ansia. Silenzio mi accoglie, spietato, sereno. Non sento pace né sicurezza, ma l’estasi di questa angoscia si placa e scompare.” Uno si immagina una descrizione, e questa viene totalmente, puntualmente stravolta da questo modo di suonare intimistico.

Tenpeun” risolse momentaneamente la confusione derivante dall’elevato numero di canzoni sparse in tantissimi album iniziando con Mandorle amare al traguardo della Millemiglia. Il disco uscì due anni dopo “La fine non è la fine” grazie a Sons Of Vesta, etichetta aretina che in quegli anni in Italia diventò un vero e proprio punto di riferimento per il punk indipendente: organizzava concerti, produceva gruppi, funzionava da base europea per i gruppi d’oltreoceano. Tutto doveva transitare da Arezzo, per fortuna, e grazie al lavoro instancabile ed appassionato di Sons Of Vesta i La Quiete andarono avanti, con altri amici e nuove idee ma rimarcando sempre di più il cammino che andava percorso. Perché non credo che questi romagnoli siano da considerarsi solamente come una “band”, nel senso fatto e finito del termine. I La Quiete credo siano stati piuttosto un passaggio, un’epoca. Hanno, come tutti i gruppi, subìto cambiamenti di formazione, si sono presi delle pause e durante alcune annate hanno suonato pochissimi concerti. Sono rientrati a casa stanchi dai tour e con il lavoro da recuperare. Sono umani, ma la loro forza è sempre stata quella di essere il territorio che attraversano, incarnandone le asperità e le dolcezze. Innanzitutto, culturalmente. L’aver suonato in gruppi paralleli, oltre ai Raein, con i quali hanno condiviso membri come Contrasto, Khere e Roid non sono esperienze che rimangono fini a loro stesse. Scopri nuovi posti, cambi modo di credere alle cose ed inizi anche a credere in cose che non immaginavi, che non immaginavi nemmeno esistessero. Hanno anche avuto un cambiamento netto nel modo di suonare, se proprio vogliamo entrare nei dettagli. Furiosi e dilanianti sino a “La fine non è la fine“, più ragionati e digressivi dopo. Ecco, forse la pubblicazione di un disco intero può essere stata una barriera spartiacque attitudinale nel fare musica. I La Quiete erano headliner ai più famosi festival punk di tutto il mondo e al tempo stesso hanno sempre partecipato alle iniziative nei centri occupati d’Italia, partendo da casa loro, suonando in ogni regione d’Italia.

Finisco con un aneddoto. Ho suonato anche io in un gruppo per circa sei anni, facevamo powerviolence, smettendo intorno al 2010. Nel 2009 avevamo intenzione di organizzare un tour in Indonesia, molti ragazzi ci avevano scritto da quelle terre ed abbiamo iniziato a informarci su come fare a livello pratico. Scrissi ad Andrea, che era da un paio di anni diventato il chitarrista dei La Quiete sostituendo Rocco, chiedendo un suo parere dato che ci era appena stato suonandoci. Mi ricordo ancora la sua risposta, recitava “Suonare laggiù è difficile, è faticoso, ci devi star dietro perchè sei in un altro mondo. Ma siete matti e quindi fatelo.” Questo, secondo me, significa non subire il presente. Significa andare oltre il suonare in tutto il mondo. Perché come prima o poi arriverà il tempo in cui non riusciremo più ad ascoltare musica, così prima o poi arriverà anche il tempo in cui non riusciremo più a girare il mondo per la musica. Imparando a chiamare gli eventi e le cose con il loro nome, accrescendo le proprie conoscenze. Ma tanto lo hanno già fatto i La Quiete, senza una fine ancora scritta.

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