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Hookworms – Microshift

2018 - Domino
psych / indie

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Tracklist

  1. Negative Space
  2. Static Resistance
  3. Ullswater
  4. The Soft Season
  5. Opener
  6. Each Time We Pass
  7. Boxing Day
  8. Reunion
  9. Shortcomings

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Sono passati sette anni dall’anno zero degli Hookworms, una delle band inglesi più ispirate di questa decade, nonostante un’indole schiva che li ha tenuti fin troppo distanti dalle (meritate) luci della ribalta.
Il quintetto di Leeds debutta con l’eponimo EP nel 2011 e i primi a notarli sono Bobby Gillespie e Julian Cope, folgorati dalle soluzioni che poi troveranno una forma più compiuta negli ottimi “Pearl Mystic” (2013) e The Hum” (2014), entrambi accolti molto positivamente dalla stampa di settore. Gli Hookworms s’inserivano autorevolmente nella vivace corrente neo-psych, con sonorità vicine anche a un noise parecchio acido, violentemente distorto e riverberato.

La gestazione di “Microshift è stata la più lunga di sempre, in casa Hookworms, anche a causa del dramma consumatosi nel Boxing Day – il nostro Santo Stefano – del 2015, quando l’esondazione dell’Aire – il fiume che attraversa Leeds – ha travolto anche il galleggiante Suburban Home Studio, dove la band aveva già registrato e conservato nuovo materiale, testimoniando così anche grande prolificità, aspetto tutt’altro che marginale per cinque musicisti non di professione. Gli Hookworms sono ripartiti da zero e, dopo due anni, il gradito ritorno avviene con un album diverso dai due precedenti.

Diverso è, innanzitutto, l’approccio, ma i nostri ce l’avevano detto nei mesi precedenti: meno noise, ritmiche più ossessive e psichedelia à la Spaceman 3, con strutture più catchy del solito. “Microshift” è la ricerca di una conciliazione fra l’elemento sintetico e quello meramente psichedelico: un’operazione sì complessa, ma che non necessita di un tempo particolarmente lungo per rivelare la sua bontà. Microshift si schiude, appunto, con basi sintetiche e reminiscenze french touch, poi scorre su binari psych e sulla leggerezza di un cantato che non cela la sua ispirazione pop. I rumori acidi del passato non scompaiono, sembrano solo sottilmente addomesticati, mentre la ripetizione difende il suo ruolo centrale, confermandosi elemento chiave nei trip sonori della band di Leeds: Static Resistance e Ullswater arrivano subito a spiegarci questo nuovo indirizzo, Opener serve per ripassare la lezione.

Non c’è un reale momento d’affanno in “Microshift“: può essere necessario, probabilmente, qualche secondo prima di realizzare che quelli di The Soft Season siano davvero gli Hookworms, ma è anche vero che si tratta di uno splendido viaggio interstellare vagamente Spiritualized, tracciato da un organo e condito da ricami psichedelici che si esaurisce nell’intro di Opener. Le elucubrazioni del quintetto proseguono nelle dense atmosfere dreamy di Each Time We Pass e nell’oscurità ipnotica e adesiva di Boxing Day, in un palpitante bad trip interrotto solo da un brusco risveglio. Le sonorità liquide di Reunion conducono alla multiforme e deliziosa Shortcomings, chiosa decisamente efficace per Microshift, fra increspature noise e sguardi cosmici.

Dopo quattro anni di assenza – parzialmente forzata – dalle scene, gli Hookworms tornano con un lavoro più ragionato e meno impulsivo dei due precedenti, attestandosi su livelli comunque molto alti. Sia chiaro: preferirli più chiassosi non è eresia, ma assistere a un’operazione di sincretismo così pulita ed efficace non è cosa da tutti i giorni. In appena un lustro, i nostri hanno confezionato tre prodotti di grande spessore e appare superfluo tentare di sceglierne uno in particolare: pur essendo degli autentici antidivi, gli inglesi si sono stati capaci di affermarsi silenziosamente in un microcosmo musicale che sta conoscendo importanti sviluppi, grazie a belle idee e grande tecnica.

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