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Janelle Monáe – Dirty Computer

2018 - Atlantic Records
pop / R&B

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Tracklist

1. Dirty Computer (feat. Brian Wilson)
2. Crazy, Classic, Life
3. Take A Byte
4. Jane’s Dream
5. Screwed (feat. Zoe Kravitz)
6. Django Jane
7. Pynk (feat. Grimes)
8. Make Me Feel
9. I Got The Juice (feat. Pharrell Williams)
10. I Like That
11. Don’t Judge Me
12. Stevie’s Dream
13. So Afraid
14. Americans


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È ancora possibile distinguere un uomo da una macchina? Il test di Turing ci dice di sì, mentre Janelle Monáe sembra avere qualche dubbio. In una recente intervista rilasciata a Beats 1, l’astro nascente della black music ha paragonato l’umanità a un complesso insieme di microprocessori e RAM che registrano e trasmettono informazioni senza sosta, in uno scambio infinito di pensieri ed emozioni. Non siamo altro che sporchi computer fatti di carne e ossa; le caratteristiche che ci differenziano – quelle che per molti sono solo difetti o debolezze da cancellare con un antivirus – rappresentano piccoli bug di cui andare orgogliosi.

C’è qualche motivo per il quale dovremmo nascondere la nostra vera natura? Perché vergognarsi? Sono queste le domande che emergono nei 48 minuti di “Dirty Computer”, terzo album della cantante/attrice nata nel Kansas quasi 33 anni fa. Un lavoro che affonda saldamente le radici nel nostro tragicomico presente: in un mondo dominato da personaggi controversi e divisivi, il razzismo e l’intolleranza sono diventati piaghe con le quali fare i conti tutti i giorni. Per fortuna c’è ancora chi ha voglia di fregarsene dei giudizi altrui e seguire la propria strada: è questo il messaggio di Crazy, Classic, Life, uno spensierato omaggio al pop anni ‘80 in cui la pansessuale Janelle Monáe, fresca di coming out, giura ancora di credere nel fantomatico sogno americano, trasformatosi sorprendentemente in incubo nella notte dell’otto novembre del 2016.

Spetta alle donne risvegliare il gigante dormiente: sono loro le protagoniste assolute di “Dirty Computer”, appassionato manifesto femminista che deve tanto alla teoria cyborg di Donna Haraway, quanto all’esempio biblico di figure forti quali Eva o la Regina di Saba (Take A Byte). E se oggi il mondo va a rotoli, poco importa: la chitarra funky che introduce Screwed ci guida verso un party senza fine, nel quale i seminatori di odio pagheranno caro i loro errori (You fucked the world up now, we’ll fuck it all back down). La stessa festosa atmosfera di rivalsa femminile si respira nel rap militante di Django Jane e nel delicato R&B di Pynk che, dietro un beat innocuo che non stonerebbe in una hit confezionata per la fragile ugola di Taylor Swift, nasconde un esplicito inno alla vagina e al cunnilingus (tanto per fare un esempio: Pynk, like the inside of your baby/Pynk, like the tongue that goes down maybe/Pynk, like the paradise found) interpretato in compagnia della canadese Grimes.

Giocare con i doppi sensi e con la sensualità della propria musica non è una novità per la maliziosa Monáe; d’altronde, non potrebbe essere altrimenti quando il tuo pigmalione si chiama Prince. Lo spirito del folletto di Minneapolis volteggia sull’irresistibile groove di Make Me Feel e nelle piccantissime rime di I Got The Juice, interessante esperimento afropop scritto a quattro mani con Pharrell Williams, nel quale la cantante di Kansas City si diverte a fare la gatta morta, tra seduzione (My juice is my religion, got juice between my thighs) e frecciatine non troppo velate all’attuale inquilino della Casa Bianca (If you try to grab my pussy cat, this pussy grab you back).

Un’ombra pesante quella del compianto Principe del pop (così come lo sono quelle di Brian Wilson e Stevie Wonder, illustri ospiti rispettivamente nella title track e nel breve spoken word Stevie’s Dream) dalla quale tuttavia Janelle Monáe riesce a non farsi schiacciare. “Dirty Computer” è il suo lavoro più personale, incentrato su idee ed esperienze private: la maschera da androide indossata agli esordi è caduta, lasciando spazio a una donna forte e risoluta che non ha timore di confessare apertamente la propria (pan)sessualità. È questo il tema intorno al quale si sviluppano la trap di I Like That, il soul raffinato e rétro di Don’t Judge Me e la ballata gospel So Afraid, nella quale ammette di essere terrorizzata da un mondo incapace di accettare ciò che viene considerato diverso.

Un mondo la cui descrizione corrisponde al ritratto dell’America retrograda e misogina che emerge in Americans, traccia che chiude “Dirty Computer” in un tripudio di drum machine saltellanti, tastiere con la brillantina e presagi oscuri: I like my woman in the kitchen/I teach my children superstitions/I keep my two guns on my blue nightstand/A pretty young thang, she can wash my clothes/But she’ll never wear my pants.

 

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