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Back In Time

Back In Time: GURU – Jazzmatazz Vol. 1

Jazzmatazz

È possibile fare apprezzare a un ragazzino di quindici anni il jazz? Un linguaggio musicale adulto con così tanta storia alle spalle, comprensibilmente lontano anni luce dalla sua quotidianità, che bisogna avere la pazienza di mettersi a studiare e capire. Con una soglia dell’attenzione media compresa tra i dieci e i quindici secondi e duna sovrabbondanza di informazioni a disposizione tale che se una canzone non convince, si ha già il ditino pronto a farne partire un’altra e dimenticarsela altrettanto rapidamente… Direi che no, non è affatto un’impresa semplice. Così come non lo era certamente nel 2004, anno in cui quindicenne lo era il sottoscritto e si ritrovò nel walkman questo capolavoro indiscusso per la prima volta.

Ho spesso sentito chi si interessa di hip hop da ben prima di me, parlare dell’approdo di “8 Mile” nelle sale italiane come l’inizio della fine. Invece per molti, troppo giovani per aver vissuto quanto succedeva in quel campo nei compianti anni ’90, fu l’inizio di tutto. Visto oggi, il celebre film semi autobiografico di Eminem, lascia effettivamente il tempo che trova. Ma in un’era in cui piattaforme come YouTube e Spotify erano ancora di là da venire, motivazione abusata ma in questo caso validissima, la possibilità di portarsi a casa una (doppia) colonna sonora che annoverava artisti come Wu-Tang Clan, Rakim, Mobb Deep e Pharcyde era oro puro.

Perché partire dal 2003 per parlare di un disco di dieci anni prima? Perché è proprio su uno di quei due cd che conservo ancora gelosamente che udii la voce di Guru per la prima volta. Il pezzo era Battle dei Gang Starr, duo composto dallo scomparso rapper di Boston e dal leggendario DJ Premier.

Che dire? Fu una botta. Pur nel mio misto di ignoranza e ingenuità, non sapendo assolutamente nulla di black music, giradischi e campionatori, percepivo che quel sound era radicalmente diverso da qualunque cosa passasse su MTV. Di lì a breve, avendo avuto la fortuna di conoscere dei ragazzi più grandi che nel periodo delle jam e dei mixtape, i lavori del gruppo li avevano consumati abbondantemente, ebbi modo di procurarmi un paio di loro album. Pura e semplice gioia.

Quei beat minimali e maestosi e quei rap a un tempo ruvidi ed eleganti, mi avevano semplicemente stregato. Ne avrei voluto ancora ma quando abitavi in una sperduta cittadina di provincia e non avevi uno stipendio, era assai difficile mettere le mani su dischi che avresti dovuto farti arrivare d’importazione. Mi venne ancora una volta in aiuto uno di quei compari già grandicelli. Passando da casa sua, quella volta come tante altre, lo trovai intento a suonare una selezione di vinili. Tutto molto soft e avvolgente, una sequela di artisti e di suoni che per me erano arabo, finché non udii una voce familiare: “Ma sono i Gang Starr?!”.

Fortunatamente questa persona, oltre ad avere una cultura musicale vastissima, possedeva ancora uno stereo in grado di trasferire gli LP su cassetta. Qualche giorno dopo avevo il primo volume del progetto “Jazzmatazz” in loop nelle orecchie, l’inverno stava finendo ed ero il ragazzino più felice della mia classe. Intendiamoci, quello che di quei dodici brani mi conquistò immediatamente, fu ancora una volta il flow inconfondibile di Guru. Cosa volete ne sapessi di swing, blues, break, interplay…?! Eppure se anni dopo, quando la rete iniziò a permettermi di ascoltare musica sconosciuta senza accamparmi a casa di altri, colsi l’occasione per approfondire la mia conoscenza del jazz, lo devo sì all’hip hop tutto, ma a questo lavoro in particolare.

Jazzmatazz

Peace yo, and welcome to Jazzmatazz: an experimental fusion of hip-hop and live jazz. I’m your host the Guru […] Hip-hop, rap music, is real. It’s musical, cultural expression based on reality. And at the same time, jazz is real and based on reality. So I want to let you know that it was indeed and of course a pleasure to work on such a project with so many amazing people.

In effetti la presentazione fatta dall’autore nei primissimi secondi del disco, basterebbe a descriverlo. Ma lasciatemi spendere due parole per parlarvi del calore della tromba di di Donald Byrd su Loungin’, di come When You’re Near e Trust Me siano forse i migliori pezzi per amoreggiare mai scritti, dell’overdose di stile raggiunta dal padrone di casa mentre duetta col francese MC Solaar, della pura poesia metropolitana che trasuda da Down The Backstreets col pianista Lonnie Liston Smith e dallo storytelling finale Sights In The City, del fatto che probabilmente mai più nessun pezzo come Take a Look (at yourself) con Roy Ayers, riuscirà a coniugare tanto bene strafottenza e classe. 44 minuti e 17 secondi in tutto. E non si potrebbe rinunciare a cuor leggero ad un solo secondo.

Tornando alla domanda posta in apertura… No, non credo sia assolutamente possibile un quindicenne si appassioni al jazz, salvo casi veramente eccezionali. Nell’epoca dei Lil’ e degli Young, dell’autotune come cifra stilistica e delle storie su Instagram che fanno più visualizzazioni dei video dei pezzi, non c’è più spazio per parlare di musica. No, non è il solito discorso da vecchio che fa il predicozzo alle nuove generazioni. È proprio il succo del discorso che è cambiato. Oggi il rap viene visto come un facile mezzo per ottenere il famoso quarto d’ora di celebrità. Farlo o parlarne, ormai cambia poco. Quindici anni fa o lo amavi con ogni cellula del tuo corpo, o non ti saresti mai preso la briga di riesumare un walkman a cassette perché non avevi altri mezzi per ascoltarlo. A pensarci bene, il problema non sono nemmeno i ragazzini o le odierne modalità di fruizione. Ricordo benissimo che una mia compagna, durante uno dei numerosi ascolti di “Jazzmatazz Vol.1“, mi strappò un auricolare a tradimento e se ne uscì con: “Ma che musica di merda ascolti?!”. Eh lei sì che ne sapeva: stava a ruota con Prezioso e gli Eiffel 65. Vedete? È proprio che questo genere in Italia, l’hanno sempre capito in pochi…

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