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Back In Time

Back In Time: CAVE IN – Until Your Heart Stops (1998)

Chiunque abbia ascoltato almeno una volta nella vita “Until Your Heart Stops” dei Cave In non rimarrà sorpreso nello scoprire che l’album fu registrato in un periodo alquanto turbolento per la giovanissima band metalcore del Massachusetts, all’epoca alle prese con una line-up a dir poco precaria. Una situazione al limite del paradossale: appena due settimane prima di entrare in studio il cantante Dave Scrod – già sostituto di Jay Frechette – abbandonò la nave quasi senza preavviso, lasciando il microfono nelle mani del chitarrista Stephen Brodsky. Una bella patata bollente, non c’è che dire!

Eppure qualche motivo per sorridere c’era: l’ingresso in pianta stabile del bassista Caleb Scofield – anche questo a ridosso dell’inizio dei lavori sul disco – risolse non pochi problemi a Brodsky, Adam McGrath (chitarra) e John-Robert Conners (batteria). L’arrivare di corsa a un appuntamento tanto importante quale il debutto sulla lunga distanza, tuttavia, non fu un’esperienza indolore per il rinnovato quartetto. Stress e paure si insinuarono nelle sale del GodCity Studio, schiacciando i poveri Cave In nella morsa dell’ansia e delle aspettative. Un cumulo di rabbia e frustrazioni che si riversò sulla musica, dando vita a un amalgama di stili e suoni talmente tanto denso e furioso da far letteralmente fermare il cuore.

 

I dubbi accompagnarono Brodsky e compagni per tutte le settimane trascorse a Salem, nelle sale di registrazione di proprietà di Kurt Ballou dei Converge. A tranquillizzarli infine ci pensò il buon Aaron Turner, frontman degli Isis e fondatore dell’etichetta indipendente Hydra Head, che promosse a pieni voti i quattro insicurissimi diciannovenni. Con che coraggio avrebbe potuto bocciarli, dopotutto? Una partenza al fulmicotone come Moral Eclipse è da dieci e lode: riff impazziti, ritmiche in continua evoluzione e una coda che stende come un cazzotto in faccia. Sembra di ascoltare la versione schizofrenica degli Slayer, ma in realtà si tratta di un gruppetto di ragazzini appena usciti dalla scuola superiore.

In Terminal Deity compare qualche timidissimo intervento melodico che lascia quasi immediatamente il posto a raffiche di death metal e hardcore, ma non è nulla rispetto al capolavoro Juggernaut: se esiste un genere musicale chiamato progcore, qui ne abbiamo un esempio di tutto rispetto. Il brano alterna stop’n’go violentissimi, inquietanti intrecci di chitarre e passaggi doom pesanti come la zampata di un elefante. Oltre a essere un’eccellente prova delle qualità tecniche dei Cave In, Juggernaut ha anche il merito di metterne in mostra il lato più sperimentale e coraggioso.

Da qui in poi “Until Your Heart Stops diventa una giostra di mazzate math (The End Of Our Rope Is A Noose), lunghe bordate thrash che attraversano i territori inesplorati dello shoegaze (Until Your Heart Stops) e del noise più marcio (Controlled Mayhem Then Erupts), e rapide rasoiate industrial (Bottom Feeder) che non stonerebbero su un disco di Justin Broadrick. In Halo Of Flies ed Ebola affiorano i primi indizi della strada che avrebbero imboccato con l’album successivo, “Jupiter”: i ritmi rallentano, i delay creano suspense e il buon vecchio hardcore di scuola bostoniana inizia a flirtare con le atmosfere “spaziali” tanto care agli amatissimi Failure.

Until Your Heart Stops è un’opera confusa, acerba e carica di una rabbia talmente forte da sfiorare l’insostenibile. Potrebbero sembrare difetti, ma non lo sono affatto: la sua bellezza si nasconde nelle imperfezioni di una produzione a basso costo, nelle strutture dei brani che non sembrano seguire alcuna logica, nel semplice dare forma agli impulsi di quattro ragazzi che volevano solo incendiare i palchi dei minuscoli locali underground del Massachusetts, e invece si ritrovarono a scrivere una delle pagine più belle e intense del metalcore.

In seguito i Cave In avrebbero perso la genuinità degli esordi, mantenendosi tuttavia sempre su ottimi livelli. Per salvare le proprie corde vocali, il povero Stephen Brodsky preferì lasciare le parti cantate in growl a Caleb Scofield; un vero e proprio fuoriclasse dello stile gutturale, come avrebbe dimostrato anche al fianco di Old Man Gloom e Zozobra. Una scelta tutto sommato di poco peso considerando il fatto che, dopo “Until Your Heart Stops”, la band cominciò ad allontanarsi sempre di più dai lidi estremi del debutto, abbracciando in maniera convinta le melodie nell’alt/prog metal del classico “Jupiter”, nella svolta ultra-commerciale del deludente “Antenna” e nel parziale ritorno all’hardcore dell’ottimo “Perfect Pitch Black”.

Nel 2011, dopo sei anni di pausa, l’ultima sorpresa a firma Cave In: “White Silence”. Un lavoro forse fin troppo complesso, ma in grado di dimostrare al meglio l’invidiabile versatilità dei quattro. Purtroppo, ci sono enormi probabilità che si tratti anche del loro canto del cigno: la tragica scomparsa di Scofield in un incidente stradale avvenuto lo scorso 28 marzo, infatti, potrebbe aver segnato la fine di una delle realtà più sottovalutate della musica alternativa statunitense.

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