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Jonathan Davis – Black Labyrinth

2018 - Sumerian Records
alternative metal / power pop / industrial rock

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Tracklist

1. Underneath My Skin
2. Final Days
3. Everyone
4. Happiness
5. Your God
6. Walk On By
7. The Secret
8. Basic Needs
9. Medicate
10. Please Tell Me
11. What You Believe
12. Gender
13. What It Is


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Ci sono artisti – o presunti tali – che proprio non sanno quand’è il momento di ritirarsi non comprendendo quanto secca sia la propria vena artistica e questo è esattamente il caso di Jonathan Davis. Non è un’accusa o un insulto gratuito, anche se potrebbe sembrare una boutade di questo tipo ma semplicemente una constatazione oggettiva, e lo dico con grande mestizia dato il ruolo che il cantante ha giocato nella mia formazione musicale.

Già in casa Korn sembra si sia persa da un bel pezzo la bussola e la capacità di produrre qualcosa se non di incisivo ed immortale – non accade praticamente più a nessuno d’altronde – nemmeno di mediamente buono o interessante. Eppure la vocalità di Davis molto potrebbe e il suo miglioramento sia tecnico che espressivo è tanto palpabile da sembrare “fisico” eppure non sembra in grado di muoversi dal posto in cui sta da 26 anni a questa parte.

Non contento di aver dato alle stampe l’ultimo raccapricciante album della sua band madre  la violenta ugola di Bakersfield tenta il primo passo in solitaria ed è, mi duole dirlo, un passo falso. “Black Labyrinth” si presenta sin dai primi tre singoli estratti (What It Is, Everyone e Basic Needs) come un lavoro senza una direzione precisa. Se in taluni casi questo potrebbe risultare come il proverbiale punto a favore in questo assolutamente no. Per tutta la durata dell’album regna una confusione incredibile e si fa strada l’idea che nemmeno Jon sappia dove voler andare a parare, che gli manchi il coraggio di seppellire il suo passato/presente altrove per cambiare definitivamente pelle che a quasi 50 anni sarebbe pure ora.

I tre brani di cui sopra sono infatti una copia stinta della sua creatura originaria, un pallido tentativo di piegare quelle sonorità ad una veste più easy listening, più lineare e meno “metallica” ma che ovviamente fallisce miseramente in un’esplosione di assoluta bruttezza e scontatezza. Se prendete un brano come l’opener Underneath My Skin sentirete tutto questo grado di indecisione che manda tutto in cortocircuito: un chorus da un milione di dollari ripetuto fino al vomito e quindi privato del suo potere comunicativo, e come se non bastasse poggiato su una base che non sa se essere “metal” o power pop. Il timore di perdere la sua fanbase è inevitabilmente l’ancora che lo tiene incollato ad un terreno ed un’immagine da eterno (nu)metallaro dannato vieppiù anacronistica e che data l’età anagrafica fa più tristezza che spaventare come si è evidentemente vorrebbe che accadesse.

Il buono arriva per l’appunto quando il Nostro si slega da questi aspetti sterili e va a pescare altrove, soprattutto quando lo fa molto lontano dal suo punto zero. The Secret è il brano punta di diamante dell’intero lavoro: electro-pop infettato r’n’b ultra orecchiabile, super catchy e infestato da melodie di una bellezza sconcertante e che rimane impigliato in testa senza pietà. Davis gioca a fare la popstar – in senso più che lato – e par avere tutte le carte in regola per poter fare il culo a quelle vere, ma è solo un guizzo perché la cosa muore qui dov’è iniziata. Ci riprova giusto nel refrain di Gender ma non arriva come dovrebbe, non si fa strada, si spegne e riaccende ad intermittenza, non s’illumina di luce propria insomma: non funziona. La peculiarità del brano sta semmai altrove, ossia nell’utilizzo di sitar e tablas cosa che accade con ancor più incisività in Final Days che con le chitarre appena accennate fa quell’effetto Tool che fa sorridere. Un ultimo estremo tentativo di far sì che il power pop di cui sopra svetti sul resto arriva sulla danzereccia malinconia di Your God, impreziosita dal solito ritornello pregiato. Nulla più.

Il resto è un’accozzaglia di sonorità industriali – eterna fissa del cantante – ed elettroniche, ovviamente accompagnate dai soliti immancabili chitarroni, che si sfasciano l’una sull’altra senza soluzione di continuità che, vado a ripetere, è il vero e proprio Tallone d’Achille di questo tiepido lavoretto.

Jonathan Davis sembra vivere in un’insicurezza sempiterna che non lo porta ad esprimersi come ci si aspetterebbe da un artista che ha fatto di innovazione ed intensità fuse assieme l’ariete da guerra con cui ha sfondato le certezze dell’astro nascente del nu-metal e di tutta la musica pe(n)sante di inizio ’90. Diventa dunque impossibile non paragonarlo a Chino Moreno che invece ha saputo reinventarsi di continuo dando ad ognuna delle sue creazioni un’impronta sempre nuova e fresca.

Un paragone impietoso perché “Black Labyrinth” poteva essere quel qualcosa in più ed invece si spegnerà nel giro di pochi giorni e se verrà ricordato sarà fatto come di quella volta in cui un ottimo interprete non ha saputo che farsene di una manciata di brani. Sad but true.

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