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Back In Time

Back In Time: MIKE OLDFIELD – Tubular Bells (1973)

Tubular Bells

Tanti adolescenti trascorrono i pomeriggi rintanati nelle loro camerette a strimpellare la chitarra o qualche altro strumento. Alcuni si limitano a fare un po’ di casino, cercando di imparare a suonare qualcosa; altri, come il giovane Mike Oldfield nel 1971, preferiscono gettare le basi per uno degli album più ambiziosi e rivoluzionari della storia del rock.

Tubular Bells” comincia a prendere forma tra le pareti del suo minuscolo appartamento di Tottenham, quartiere nella parte nord di Londra. È qui che, su un registratore a bobine della Bang & Olufsen prestatogli dall’ex Soft Machine Kevin Ayers, il timidissimo e talentuosissimo polistrumentista di Reading fissa su nastro – in totale autonomia – tracce e tracce di idee accumulatesi nella sua testa nel corso di anni di schitarrate in solitaria.

La carriera di Oldfield è appena ai nastri di partenza, ma lui già sogna in grande: perché ridursi al semplice imitare quanto fatto in precedenza in campo pop, rock e progressive, quando potrebbe dar vita a un’interminabile suite in grado di unire i suoni della scena di Canterbury a quelli del minimalismo di Terry Riley, della musica celtica, della classica, della fusion, dell’ambient, dell’hard rock e di chi più ne ha, più ne metta?

Eppure, quando con la demo finalmente pronta va a bussare alle porte delle principali case discografiche dell’epoca (tra le quali la CBS, la Harvest, la Pye e la Island), il povero ragazzo viene sempre gentilmente accompagnato all’uscita: senza l’ombra di un brano spendibile come singolo non può andare da nessuna parte. Per non parlare della totale assenza di tracce di batteria o voce.

Tubular Bells

Quasi totalmente rassegnato agli incessanti rifiuti, Oldfield tira a campare continuando a suonare la chitarra al fianco di Ayers e della Sensational Alex Harvey Band. Arriva addirittura ad avere un ingaggio come turnista per la rappresentazione del musical “Hair” allo Shaftesbury Theatre di Londra, ma si annoia mortalmente: per divertirsi un po’ si lancia in azzardate improvvisazioni sul tema di Let The Sunshine In, creando non pochi grattacapi ai compagni d’orchestra.

La fortuna comincia a girare dalla sua parte solo dopo l’incontro con Tom Newman e Simon Heyworth, due ingegneri del suono che lavorano al The Manor, uno studio di registrazione immerso nel verde dell’Oxfordshire. Mike Oldfield è in una delle sale della struttura a provare con la band di Arthur Louis quando, con la coda dell’occhio, scorge la coppia di tecnici indaffarata sui mixer; un’occasione da non perdere per andare a rispolverare il vecchio sogno nel cassetto. Newman e Heyworth si mostrano subito interessati al materiale e promettono a Oldfield di consegnare il tutto nelle mani dei loro boss, Simon Draper e Richard Branson, che guarda caso stanno pensando di mettere su una “piccola” etichetta indipendente, la Virgin Records.

Con il petto gonfio di speranze, il diciottenne Mike torna a casa sicuro di aver fatto finalmente il colpaccio. Passano giorni, settimane, mesi: nessuna novità dall’Oxfordshire. Un anno di attesa e tutto sembra essere andato in fumo: la futura superstar britannica non ha più un soldo e riesce a mangiare solo grazie agli aiuti della madre e della fidanzata. Da qualche parte legge che in Unione Sovietica cercano musicisti statali pagati dal Cremlino e decide di cogliere questa ultimissima opportunità per ottenere un briciolo di stabilità economica.

A questo punto, quasi come in un film a lieto fine, il vero e proprio miracolo. Mentre si accinge a sollevare la cornetta per contattare l’ambasciata russa a Kensington Gardens, arriva la chiamata di Draper: Branson lo aspetta a cena per discutere riguardo le registrazioni del disco e stilare la lista degli strumenti musicali da affittare. Da questo punto di vista Oldfield non bada a spese: tra il novembre 1972 e l’aprile 1973 negli studi del The Manor arrivano furgoni carichi di chitarre, percussioni, vibrafoni, mandolini, timpani e glockenspiel. Tanto per non farsi mancare nulla, c’è anche uno zufolo.
Le leggendarie campane tubolari che danno il titolo all’album, tuttavia, le trova già lì, disponibili all’uso: un gentile prestito da parte dell’ex Velvet Underground John Cale. Oldfield gliele restituirà crepate, dopo averle prese a martellate nel corso delle sue estenuanti sessions solitarie.

La prima facciata di “Tubular Bells”, la più bella e famosa, viene completata in una sola settimana; i lavori sulla seconda parte della suite, al contrario, si protraggono per qualche mese. Nel frattempo, Richard Branson e Simon Draper si prendono la libertà di portare con loro i nastri incompiuti da far ascoltare a qualche collega al Midem, la fiera dell’industria discografica che si svolge ogni anno a Cannes, in Francia. La bocciatura è unanime, e la motivazione è sempre la stessa: servono un batterista e un cantante. Ormai abituato a tali critiche, Oldfield decide di infischiarsene; o meglio, segue il consiglio ma a modo tutto suo.

Si rinchiude nella fornitissima cantina del The Manor, si scola quasi per intero una bottiglia di whiskey e, una volta tornato in studio, inizia a urlare e a fare versi animaleschi davanti al microfono. Un gesto di stizza, uno sfogo nei confronti di quanti gli hanno sbattuto la porta in faccia; i suoi ululati e lamenti da cavernicolo (proto-growl?) li possiamo ascoltare in “Tubular Bells”, nel segmento noto con l’azzeccatissimo titolo Caveman.

Il bello di questa monumentale opera rock si nasconde proprio in questi piccoli dettagli. Si tratta di minuscole avvisaglie di una ribellione contro major e addetti ai lavori che, all’epoca della sua uscita, in maniera ottusa non colsero l’enorme potenziale commerciale della stramba creatura concepita dalla mente di un geniale enfant prodige. Fu comunque un successo a scoppio ritardato: l’album arrivò ai vertici delle classifiche inglesi e americane solo nel 1974, dopo l’inclusione dell’inquietante parte introduttiva della suite nella colonna sonora del blockbuster horror “L’esorcista”.

Ma in fin dei conti, che importa? Con le sue sedici milioni di copie vendute in tutto il mondo, “Tubular Bells” ha reso Mike Oldfield uno degli uomini più ricchi del mondo, con ville pazzesche a Ibiza e alle Bahamas. Per non parlare di Richard Branson, che oggi può permettersi di investire nel turismo spaziale!

Anche in questa bella storia di gloria e riscatto, tuttavia, qualche piccola zona buia c’è. Quando pubblichi il tuo capolavoro alla prima botta rischi di farti schiacciare dalle aspettative. E ciò è quanto è accaduto all’artista britannico che, nonostante una carriera costellata di hit, gioie e soddisfazioni, da 45 anni vive all’ombra di queste imponenti, magnifiche campane tubolari, costrette a risuonare per l’eternità tra sequel più o meno riusciti (“Tubular Bells II” del 1992, “Tubular Bells III” del 1998 e “The Millennium Bell” del 1999), un remake (“Tubular Bells 2003”), innumerevoli ristampe e persino qualche orrendo remix in salsa trance (“Tubular Beats” del 2013).

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