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Back In Time

“Gish”, il viso etereo di un mondo sporco

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I remember Courtney Love calling me once and saying: ‘Your first album is unfair ’cause it’s sounds like a second album, like you guys work too hard, that solos are too good.’Billy Corgan racconta questo aneddoto a Lars Ulrich nel suo programma radiofonico It’s Electric e la sua espressione dice tutto e sembra dire “che stronzata è mai questa?”, e lo è. Rimane un fondo di verità inoppugnabile: “Gish” non sembra un primo album se comparato ai primi album di tante altre realtà di quegli anni.

Forse la vedova Cobain vedeva la cosa in termini dispregiativi – d’altronde non è colpa di nessuno se “Pretty On The Inside” è suonato di merda, no? – ma a mio modesto avviso è tutt’altro che così. “Gish” è un’anomalia del sistema “alternative” e “grunge” di quegli anni, ed è questo a renderlo in qualche modo superiore. Non è solo l’eccelso lavoro in fase di produzione di Butch Vig, altrove visto come una bestemmia in termini di distruzione del suono greve che una band alternativa avrebbe dovuto avere, ma che qui assume una veste di perfezione in linea con quanto i quattro dell’Illinois erano già in grado di fare al tempo.

Duri come il diamante ma niente affatto grezzi – seppur chiaramente acerbi – e affilati come lame che sognano d’esser farfalle gli Smashing Pumpkins irrompono sulla scena in maniera totalmente obliqua e lo fanno sin dal titolo. La dedica a Lillian Gish è qualcosa di weird. Mentre tutti si lanciavano in titoli dal significato terreno la band di Chicago andava a ripescare il volto di una delle più affascinanti attrici del cinema delle origini. Quando vidi la prima volta il suo volto in “The Birth Of A Nation” – il che ahimè avvenne ben dopo aver acquistato questo album, a sua volta non il primo degli SP che comprai – ne fui affascinato indelebilmente. Non era solo l’eterea bellezza di un mondo ormai scomparso e annegato nelle pieghe del tempo, era qualcos’altro che rasentava la perfezione nel suo essere avulsa dal contesto, quasi atterrata da un altro mondo sul set della pellicola di Griffith. A quel punto compresi appieno il potere del disco e il suo posto nel mondo della musica altra e l’intento del gruppo nel recupero di qualcosa sepolto nella memoria collettiva di un mondo frenetico.

Lo strapotere degli strumenti in ogni brano, gli arrangiamenti adulti, il drumming furiosamente perfetto di Chamberlin, la voce osbourniana in contesto shoegazer di Corgan, i tappeti elettrici di Iha e il basso ameno della Wretzky, i testi al contempo sì umani e intelligibili che indecifrabili, i titoli assurdi: tutto questo formava un quadro d’alienazione di non poco conto. Il posto che il quartetto si è ritagliato nella scena è quello di chi dice a tutti “io scrivo meglio di chiunque altro le ballad elettriche e nessun altro nei prossimi dieci anni riuscirà a farlo come lo sto facendo io” e così è stato, senza esagerare troppo. Un brano come Rhinoceros è lì a dimostrazione di ciò, col suo andamento sognante interrotto da un’esplosione di elettricità imperante che non toglie un’oncia di espansione emotiva al tutto.

Quando la furia prende il controllo abbiamo i missili terra-aria di Tristessa, Bury Me o I Am One, con le chitarre che ruggiscono e fanno a pugni con una voce leggiadra e mai sopra le righe che non scalcia per tirarsi fuori dalle righe ma confonde chi è abituato alle grida di disagio di altra gente. Gli assoli sono sì perfetti e sono pure dosati, non rubano la scena ma fanno urlare i brani e sono lanciati nella mischia come cesoie scintillanti. I suoni di coda in salsa shoegaze che baluginano qui e là danno poi un’ulteriore spinta di bellezza. La morbidezza alt-rock e mai scontata nel suo essere anacronistica e fuori contesto nineties di pezzi da 100 del calibro di Crush daranno una sicura spinta al dream pop, e ancora oggi nessuno ha scritto un mutante che mischia Sabbath e mistificazioni post come Snail e Suffer o la splendida Daydream, magistralmente interpretata da D’Arcy che dimostra di non avere nulla da invidiare a Rachel Goswell.

Gish” è il risultato di un tempo che si piega su se stesso traducendosi in un mondo a parte, avulso dallo sporco che si staglia in una decade di confusione e follia non solo artistica e che gli Smashing Pumpkins cavalcheranno a rotta di collo fino ad un’inevitabile autodistruzione.

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