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Back In Time

Back In Time: SLEEPYTIME GORILLA MUSEUM – In Glorious Times (2007)

Parecchi anni or sono solevo bazzicare in quel di Pavia per ragioni varie ed eventuali. Un giorno, nell’anno del Signore 2007, m’imbattei in questo negozietto di dischi dall’aria metalliforme e simil-gigeriano posticcio e ne fui talmente attratto che vi entrai. Da fuori non gli avrei dato una lira bucata ma dentro mi si aprì uno scenario che per ognuno di noi diggers con quel tanto di malanno per lo spulcio e le mani bucate è ascrivibile ad aver trovato la X sotto cui scavare e trovare il tesoro dei fottuti pirati.

Sul muro campeggiava un quadretto/poster – non ricordo se autografato o meno – con tanto di CD annesso di “The Director’s Cut” dei Fantomas. Ero nel posto giusto, chiaramente. Mentre mi dilettavo nel cercare qualcosa da portarmi a casa per giustificare la trasferta in diffusione partì qualcosa di davvero, davvero anomalo. Mi fermai con lo sguardo perso nel vuoto e il commesso notò questa mia particolare attenzione e disse: “è il nuovo album degli Sleepytime Gorilla Museum, arrivato proprio oggi”. “Chi?” pensai di getto io, perso nella più profonda ignoranza e nello sbigottimento. Forse lo dissi perché lui attaccò a spiegarmi che era la “nuova” band di gente proveniente da Idiot Flesh e Charming Hostesses, insomma roba dalle parti della Tzadik di Zorn e chiaramente influenzata da Mr. Bungle e compagnia cantante.

In Glorious Times” – questo il titolo di quell’album – mi stregò immediatamente, tanto che lo comprai subito e me ne uscii alla velocità della luce ricacciandomi sul treno per tornare a casa ed ascoltarlo. Sì, il contenuto era proprio qualcosa che avrei attribuito a qualche progetto disagiato di John Zorn in combutta con qualche altra mente malata ma c’era molto di più. Scoprii che gli SGM orbitavano nell’universo del cosiddetto Rock In Opposition – più che un genere una corrente estetica e di pensiero vera e propria – e in effetti l’eco dei Magma e di parecchia altra roba progressiva a metà tra King Crimson e Univers Zero era più presente che mai, il tutto mescolato disastrosamente con un amore anomalo per l’avanguardia alt-metal di stampo californiano – luogo di provenienza del combo – che si attestava con un piede nella staffa del post-qualcosa dei Neurosis e l’altro in quella del mondo pattoniano, nonché un’infatuazione per il teatro dell’assurdo, il vaudeville e una fortissima dose di cabaret noir portata al grande pubblico per mezzo di MTV in quegli anni dai The Dresden Dolls. Ah, dimenticavo, anche un pizzico di Meshuggah.

Tutto questo marasma di influenze, una propensione per il fai-da-te dati gli strumenti autocostruiti ed assurdi usati dalla band e una ferocia orrorifica altrimenti impossibile da trovare altrove costituiscono la spina dorsale di un disco devastante ed ignorato dai più – tanto per cambiare. “In Glorious Times” è un disco che vive di asperità indigeribili, angoli di crepuscolo disegnati su un fondale di una pellicola espressionista degli anni ’20, il tutto veicolato da un virus metallico che divora la pelle.

Il sick lirismo di Nils Frykdahl si sposa perfettamente con il liquido amniotico della notturna e melodicamente sghemba The Companions mentre altrove si tramuta presto in un demone intento in declamazioni infernali dall’alto di un pulpito monolitico, come ben dimostra Puppet Show. Danze macabre da circo decadente si presentano agli avventori con la bravissima Carla Kihlstedt a dar manforte vocale al frontman dando un tocco ulteriormente stramboide mediante l’utilizzo del suo fido violino, magistralmente straziato a più riprese. Assurdi assalti frontali come Ossuary inoltre non possono lasciare impassibili così come il verbo dei 5 di Umea risalta su un sostrato waitsiano mai nascosto tra le pieghe di debilitanti intarsi ritmici ad opera di Matthias Bossi, del fido Dan Rathbun e delle atrocità percussive di Michael Iago Mellender.

Così come sono arrivati nella mia vita, e come sempre accade, gli SGM se ne sono anche andati, persi nei flutti di un mondo inconsapevole – o quasi – della loro esistenza, tramutatisi in altro, cambiando nome e veste. Ogni tanto questi benedetti Back In Time è giusto usarli anche per riportare alla luce realtà come la loro, rimaste all’oscuro di negozi di dischi polverosi che si ergono in vie anguste di città di provincia ma che nel tortuoso mondo alternativo han gettato più di un seme e incuriosito parecchi personaggi obliqui – anche di livello, ad esempio Tony Levin è un loro grande fan. Condemned to flail without end. Condemned to fail in the end.

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