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Calcutta – Evergreen

2018 - Bomba Dischi
pop

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Tracklist

1. Briciole
2. Paracetamolo
3. Pesto
4. Kiwi
5. Saliva
6. Dateo
7. Hubner
8. Nuda nudissima
9. Rai
10. Orgasmo


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La sfida più importante che si prometteva di superare questo “Evergreen”, che segna il ritorno sulle scene di Calcutta dopo un tesissimo silenzio, era di rimarcare un confine fra lui, Edoardo D’Erme da Latina, e i vari “cloni”, più o meno sviluppati, che hanno inevitabilmente giovato della breccia da lui aperta presso il grande pubblico. Già perché, se c’è qualcuno che negli ultimi anni ha scavalcato senza remore l’archetipica barricata indie-mainstream ed ha aperto la strada a questa rivoluzione nell’approccio, questi è proprio Calcutta. Ma allora, se è lui a detenerne lo scettro, risulta quasi didascalico sottolineare quanto “Evergreen” funga proprio da protezione e, al contempo, da cassa di risonanza ad un’identità ora ancora più forte e marcata, inevitabilmente protesa tanto a farsi guida della corrente itpop quanto anche, numeri alla mano, a distinguersi con freschezza fra i colleghi più stanchi ed attempati del panorama mainstream.

Inevitabile allora che “Evergreen” non rinneghi nulla di quanto già tracciato e collaudato dal precedente “Mainstream” – che senso avrebbe avuto? -, ma piuttosto riscopra, consolidi e potenzi la formula originale. Una formula che tanto ha pagato e che si fonda su un pop atipico, con echi cantautorali (i più, all’epoca, dissero Luca Carboni, oggi ci sono anche Gaetano e Battisti), con quell’estetica lo-fi da cameretta messa in bella mostra ad arricchire una serie di canzoni solo apparentemente abbozzate e storte. Ancora dieci brani col pianoforte in primo piano, quindi, con arrangiamenti scarni ma studiati, e comunque più complessi ed eccentrici di quelli di “Mainstream“. Il resto lo fanno, ovviamente, le liriche, parte dell’immediata identità calcuttiana almeno quanto i cori da stadio che le supportano e che, non a caso, anche stavolta si lasciano andare al sing-along più ostentato e felice. In generale, sono proprio i testi ad apparire più solidi e personali di tutti, forti della solita, sguaiata malinconia, di un’epica precisa nei riferimenti (Dario Hubner, Fondi, la tachipirina) e di un tono naïf nella surreale ironia che la anima, tanto da prendersi senza paura l’aggettivo “generazionale” – con annessi tutti i pro e i contro del termine, ovviamente.

Ma al di là della formula di base, nelle sue biforcazioni “Evergreen” è molto più di una versione potenziata del predecessore. Sulla scorza ci vanno, in ogni caso, i singoli scala classifiche che tanto si sono ascoltati in radio in questi mesi: pezzi meno banali di quanto possano sembrare, che rifuggono il motivetto semplice semplice verso una robustezza melodica notevole prima solo corteggiata, vicina tanto a Battisti quanto al britpop. Un po’ come la voce stessa di Calcutta, che pare inciampare ma che, in realtà, celebra un timbro ed una tenuta forti ed energici perfetto per i vari momenti dell’album. Così, Pesto e Paracetamolo – come anche la malinconica distensione finale di Orgasmo e, in tono minore, Kiwi – finiscono col segnare il vero e proprio debutto in società del pop atipico del cantautore di Latina, con irresistibili incisi, testi surreali ed amari ed una creatività invidiabile nel giocare con l’elementarità del trittico strofa – bridge – ritornello.

A far loro da contraltare, c’è la crescita del Calcutta-autore verso lidi decisamente meno immediati. L’opener Briciole, ad esempio, scopre una nuova dimensione di nostalgia più rotonda, profonda e completa per testo e minimalismo dell’arrangiamento classicheggiante di quelle prima d’ora solo abbozzate, oltre ad una prestazione vocale mai così solida. Più in là, Nuda nudissima svela finalmente tutta la passione del latinense per l’Italia degli anni ’60, in quello che è forse l’episodio più vintage dell’album, mentre Saliva si fa acida nella sua rudezza da “vecchi tempi” e Rai, autentico vertice dell’opera e perla di inedita e artigianale complessità, snocciola a sorpresa, su un ritmo corrosivo, una struttura melodicamente meno semplice ed equilibrata di quelle che si aprono nel resto dell’album.

Per questi episodi, decisamente fra i più riusciti, “Evergreen” è un disco coraggioso e meno scontato di quanto ci si potesse aspettare; un lavoro che è più facile faccia storcere il naso ad un orfano di “Mainstream” piuttosto che convertirne qualche scettico. L’altra faccia, quella dei singoli, servirà invece a sdoganare definitivamente Calcutta fra gli autori pop più importanti della sua generazione, rimarcando i confini di un’identità scalpitante che, pur paventando una certa prevedibilità di fondo, rivela comunque un talento compositivo non trascurabile e racconta di quanto nulla, nel suo percorso, sia casuale. Neanche questo terzo capitolo, apparentemente distratto e dinoccolato ma in realtà intelligente, curato e definito. È l’inganno, agrodolce, del pop calcuttiano.

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