Impatto Sonoro
Menu

Recensioni

Eels – The Deconstruction

2018 - E Works Records
alternative / indie

Ascolta

Acquista

Tracklist

1. The Deconstruction
2. Bone Dry
3. The Quandary
4. Premonition
5. Rusty Pipes
6. The Epiphany
7. Today Is The Day
8. Sweet Scorched Earth
9. Coming Back
10. Be Hurt
11. You Are The Shining Light
12. There I Said It
13. Archie Goodnight
14. The Unanswerable
15. In Our Cathedral


Web

Sito Ufficiale
Facebook

Mark Oliver Everett ti è vicino. Come un amico che non vedi molto spesso, con cui i contatti sono sporadici ma che in qualche modo è presente. Nel momento del bisogno, come vuole il cliché, ma alla fine è vero. Ecco, se c’è una costante, positiva, che segna il percorso del nostro e della sue Eels è un’insolita vicinanza con l’ascoltatore, qualcosa che non si dà molto spesso. Che sia il suo timbro profondo ma confidenziale, che non sfocia nell’individualismo del crooner ma non si attesta neanche su un tono medio e impersonale. O il sapore agrodolce delle melodie, lontane in ugual modo da certe ricercatezze cantautoriali e da un pop stucchevole e poco ispirato. Qual che sia quel qualcosa, Mark ci mette sempre una buona parola. E ha sempre qualche buon consiglio da regalare.

Quest’ultimo “The Deconstruction” non fa eccezione. È un disco politico ma nel senso intimista, domestico che può dargli Everett. Non a caso, nel comunicato sull’uscita del disco l’artista, nel caos che pervade i nostri tempi (ma cosa c’è stato, di lineare e ragionevole, negli ultimi vent’anni?), si professa ancora ottimista quanto basta per pensare che la sua potrebbe essere una buona colonna sonora adatta a chi pensa che le cose si cominciano a cambiare dal proprio giardino di casa. L’unica cosa sulla quale possiamo avere davvero un controllo è la nostra maniera di guardare al mondo. Citando Roger Miller, Mark suggerisce che il punto non è tanto che sia impossibile per te realizzare qualcosa di enorme e fuori portata, ma che tu abbia l’intenzione di farlo.

Un concetto che prende corpo non a caso nell’epilogo In Our Cathedral: “c’è una linea oltre la quale non si può andare, nella nostra cattedrale” ed è il confine che delimita il nostro mondo interiore, il nostro animo, quel luogo segreto accessibile a pochi eletti (e forse neanche a loro) dove le brutture, le ingiustizie e gli orrori del mondo non possono raggiungerci, dove possiamo essere in pace e al sicuro. Il brano è infatti un’elegia, un tappeto di archi e tastiere liberatorio, apotropaico***, che mette i nostri pensieri a bagno e ci restituisce puliti, depurati.

Un altro concetto chiave è la gentilezza. Dal bene non può che venire del bene, dice Everett e, per quanto assurdo possa sembrare di questi tempi che occorra proporsi di essere cordiali e non sia l’atteggiamento di “default”, un abbraccio, una stretta di mano, anche solo un sorriso possono essere l’innesco di una rivoluzione interiore, i cui effetti si sentono anche all’esterno.

Un proposito da perseguire anche quando tutto sembra cadere a pezzi, quando i capitali di fiducia sui quali hai scommesso la tua vita si dilapidano e ti lasciano sull’orlo di una crisi esistenziale e materiale (Bone Dry): per quanto bastarda sia la vita, il sole splenderà comunque e puoi sentire che le cose andranno bene. “Non è il peso che porti ciò che conta, è come lo porti”: è una questione di punto di vista (The Premonition).

Tutto questo è allo stesso tempo corroborato e smentito dalla musica, che in qualche modo tradisce le inquietudini che tormentano a livello più inconscio Mark Oliver Everett. Per quanto positivo il messaggio, il mood è a volte scuro, circospetto; i timbri in chiaroscuro sembrano suggerire in certi episodi che la rivoluzione potrebbe uscirne con le ossa rotte se si alzasse dal proprio letto. Un ruolo importante negli arrangiamenti di alcuni brani assume il violino, strumento della malinconia per eccellenza e, anche se non mancano frangenti più dinamici e frizzanti (You Are The Shining Light e Today Is The Day), non riescono a scacciare un certo spleen di fondo che pervade il disco. Non è forse un caso che gli episodi più ariosi, in maggiore, siano i più brevi ed episodici (The Epiphany e la già citata In Our Cathedral); come fossero squarci di azzurro in un cielo che minaccia però continuamente tempesta. Sweet Scorched Earth fa un po’ eccezione e qui il nostro si apre a una celebrazione della serenità d’animo che proviene dall’essere contenti del poco che si ha: una famiglia, l’amore, la natura (che per l’appunto poco non è).

Alla fine è questo il bello di Mark O. Everett e quello che andiamo a cercare da lui: una “quiet desperation” di stampo inglese bilanciata da un ottimismo di fondo che ha un che di tipicamente yankee ma è al contempo totalmente sincero.

In fondo, qui non cerchiamo il capolavoro o la svolta inaspettata: ci basta sapere di avere una spalla su cui piangere e con cui consolarci quando tutto va a merda. Scusate se è poco.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Altre Recensioni