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Back In Time

“Untouchables”: melodie che risuonano nell’oscurità

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Ciò che rende speciale un album non è solo ciò che vi è inciso sopra, ma anche come influenzi e si leghi – ovviamente ciò può avvenire sono nella mente e nell’inconscio dell’ascoltatore – alle future azioni di chi lo ha composto e registrato.

Per quanto contorto questo pensiero possa apparire “Untouchables” è il tassello più importante della discografia dei Korn poiché il quinto album della band di Bakersfield racchiude in sé la summa del proprio passato, l’incredibile evoluzione di un suono già di suo rivoluzionario e l’inevitabile fine dei giochi che il futuro aveva in serbo per i cinque californiani, sia dal fronte umano che da quello meramente artistico. Ora, molti di voi potranno anche non concordare gridando “alla bestemmia! al rogo il redattore dell’articolo!” ma messo da parte l’amore intrinseco per il gruppo – del quale sono affetto io stesso nonostante tutto – la verità oggettiva è lì da ascoltare, non mentite a voi stessi.

Il modo di approcciarsi ad un album come questo cambia radicalmente col tempo che passa. Se “Korn” oppure “Follow The Leader” come li si è ascoltati una prima volta restando con la bocca aperta per lo strapotere straight in your face in essi racchiuso, per “Untouchables” il tempo di gestazione che richiede l’assimilazione delle 14 tracce ivi contenute è di certo più lungo – quantomeno, per me è stato così. Dopo aver fatto incetta delle incursioni introspettivo/rumoristiche e totalmente alienanti di “Issues” il pomeriggio in cui comprai il singolo Here To Stay mentre mi recavo ad una cena di classe me lo ricordo come fosse oggi e ricordo che, una volta inserito il cd nel lettore portatile – condividendo una cuffia con una mia compagna di classe ci guardammo pensando “ok, cazzo, questi sono i fottuti Korn” e lei mi disse “le chitarre sembrano un tubo di piombo sbattuto su una rete metallica”. Tutto vero, ma il disco nella sua interezza è un’altra faccenda ancora.

Scoprii in seguito dei 4 milioni di dollari spesi per la sua realizzazione – l’esosa cifra non fu mai coperta grazie alle vendite. Un costo inenarrabile per una band a cui avevo sempre guardato sì come arricchita grazie ad MTV ma mai così opulenta. Al tempo il pensiero fu solo che i miei beniamini si fossero bevuti il cervello ma con gli ascolti capii il perché di tutto quel danaro. L’album suonava – e suona ancora, per Dio – come nessun altro disco di quella genia lì mai avrebbe suonato. Il lavoro portato a termine da Michael Beinhorn – produttore che appena qualche anno prima diede smalto allo spettacolare “Mechanical Animals” di MM – è uno di quelli che rimangono impressi nella storia, forse non alla stregua di un Robinson o un Rubin, ma rimangono, e non solo per il risultato finale. Davis racconta di come l’uomo dietro al banco mix lo abbia mandato a casa più e più volte nei due anni di lavorazione del lavoro perché non stava dando il massimo, creando nel cantante una frustrazione senza eguali, ma che avrebbe dato i suoi frutti.

I pezzi si inanellano uno dietro all’altro rivelando una necessità di ulteriore ed ennesimo cambiamento del suono ma con quella volontà di rendere il proprio immortale, una volta per tutte, e inevitabilmente unico ed inimitabile, pieno ed intenso all’estremo. Su “Untouchables” ci sono cose che prima non avrebbero funzionato e che invece qui rafforzano il racconto: Alone I Break che null’altro è che una ballata aliena che mischia le texture di chitarra marchio di fabbrica di Munky e Head e le filtra con un essere acustico finora inusitato, il pop disperato e i ritornelli ripetuti all’infinito di Thoughtless e dell’epica da dieci tonnellate Hating oppure la strisciante One More Time.

Qui prendono piede anche le estreme influenze industrial-elettroniche che appena due album dopo daranno prova di non essere state affatto assimilate: la delicata/malata Hollow Life e Make Believe con il loro trip hoppegiare reso muscoloso dall’incredibile lavoro di Silveria/Fieldy mai come ora affiatati e ispirati. Da queste parti si trovano anche i momenti più feroci dell’intera discografia del quintetto come ben dimostrano gli assalti di Bottled Up Inside o gli stomp metallurgici dell’infernale ed ipnotica Beat It Upright o la rabbia in stile Meat Beat Manifesto dell’assassina Wake Up Hate.

Il tutto è ovviamente coronato dall’immensa classe di Jonathan Davis, migliorato esponenzialmente dal punto di vista tecnico nel giro di pochi anni, cosa che gli è valsa la possibilità di dare adito ad una più vasta gamma di emozioni finora rimaste latenti ed inespresse ma che qui trovano casa ideale e alzano l’asticella del nu metal – e forse uccidendolo – ad un punto inarrivabile persino da loro stessi.

Proprio il cantante in un’intervista dello scorso anno definirà “Untouchables” come il suo album preferito dei Korn e a sedici anni dalla sua uscita e con nel cuore “Life Is Peachy” posso dire che non è nemmeno così strano definirlo tale. Ciò che viene dopo è un’altra – triste – storia.

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