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“Ágætis Byrjun”: tra caos e silenzio, uno splendido inizio

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Tra gli svariati approcci con cui l’universo musicale si è avvicinato a quel cambiamento epocale e traumatico che fu il passaggio agli anni Zero del nuovo millennio, i Sigur Rós scelgono quello più intuitivo ma paradossalmente più difficile da mettere in pratica. Non è la rabbia l’antidoto all’alienazione e alle disequità sempre più marcate, tanto meno la rassegnazione o un’improbabile resilienza. Quello che spinge gli islandesi a mettere nero su bianco una tra le proposte musicali più imprescindibili degli ultimi due decenni è il progetto, naturale e ambizioso, di ricollocare finalmente al primo posto il piano emotivo ed emozionale.

Già dal titolo in aperta controtendenza con il dilagante e frenetico pessimismo – letteralmente “Un buon inizio” – e anticipando perfino certe tendenze localiste – il cantato è interamente in lingua islandese, se non per due tracce, addirittura in vonlenska, un idioma inventato dal cantante Jónsi – “Ágætis Byrjun” non è altro che un abbraccio ai moti lenti e gelidi d’Islanda, la narrazione di quel rapporto viscerale con la propria terra natia che ogni abitante di quell’isola fredda e lontana non può reprimere.

Come il feto alieno della copertina, il suono dei Sigur Rós proviene da un altro universo e l’incedere mistico e sognante che caratterizza tutte le dieci gemme che si susseguono nella tracklist è il solo trait d’union in un’opera dalle mille sfaccettature e dagli svariati incontri emotivi. Un po’ come in un continuo scontro tra ghiaccio, neve, fuoco e magma anche i suoni prodotti dai 4 islandesi mettono in scena un connubio tra dimensioni differenti: in un impianto sonoro che mischia classico ed elettrico, si compie una sublimazione celestiale di post-rock d’autore, declinato in terminologie dilatate e romantiche all’ennesima potenza.

Sigur Ròs

È proprio nell’immenso calderone del post-rock che i nostri pescano a piene mani nella magnificente Svefn-G-Englar, un viaggio sottomarino che ne rielabora e rivoluziona i caratteri principali, e in cui la voce in falsetto di Jónsi fa da contrappunto alle atmosfere cupe e ovattate che mutano continuamente umore lungo lo svolgimento di quello che è il brano più ispirato di un lavoro che non lascerà comunque mai spazio a significativi difetti di ispirazione. Difficile infatti scegliere tra gli afflati trascinanti di Starálfur, in cui si evidenziano e si distruggono impostazioni di carattere prettamente lirico, il climax sofferente di brani cupi come Flugufrelsarinn e Ný Batterí, che introducono rispettivamente elementi di trip-hop e jazz, o ancora la coralità gioiosa di Olsen Olsen, divenuta poi uno dei simboli immortali della produzione dei Sigur Rós, senza dimenticare infine il concentrato di sincera malinconia delle ballate interplanetari Viðrar Vel Til Loftárasa e Ágætis Byrjun, la prima gelida e orchestrale, la seconda calda e acustica.

Pubblicato a soli due anni dal debutto “Von”, uscito inizialmente solo per il risicato mercato islandese e sulla base del quale nessuno avrebbe mai potuto ipotizzare il futuro luminoso che di lì a poco si sarebbe concretizzato, “Ágætis Byrjun” è una pietra miliare assoluta, un esempio ancora ineguagliato (se non più avanti, perfino superandolo, dagli stessi Sigur Rós) di cosa voglia dire emozionare, e che suona universale e sconfinato pur utilizzando un linguaggio fortissimamente ancorato ad una terra così unica e lontana, nella quale caos e silenzio convivono e si alternano con assurda naturalezza.

Se un giorno dovessero chiedermi di descrivere l’Islanda, anche senza averci mai messo piede, risponderei: “ecco, senti qua”.

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