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“Demanufacture”: un monolite di ferocia meccanica

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Quando due mondi si incontrano ci sono solo due possibilità: o si schiantano decretando la fine di ambedue oppure ne formano uno completamente nuovo. A questi due assoluti l’essere definito come metal si è adattato alla perfezione. Quando è stato il momento di trasformarsi, in taluni casi, è accaduto egregiamente dando forma a nuovi stilemi pronti a divenir vecchi in tempo record ma lasciando un segno indelebile, in altri è solo seguita una triste esplosione. Andrebbe aggiunta una terza opzione: chi rimane sempre uguale a se stesso si arricchisce ma muore dentro. Oppure cade nel dimenticatoio alla velocità della luce.

Con i Fear Factory tutto dipende dal momento storico in cui li si prende in esame. Il periodo d’oro di Dino Cazares, Burton C. Bell, Raymond Herrera e Christian Olde Wolbers è durato poco più di una manciata di anni – più o meno dal 1992 al 2001. Sta di fatto che ad inizio anni ’90 furono diverse le band a dare uno scossone deciso al pianeta metal, ormai in decomposizione. In Europa la compagine black metal stava piegando la materia heavy ad un volere futuribile ed oscuro, i Sepultura facevano la muta e si preparavano ad immergersi tra aliene tribù urbane, i Death sancivano la fine del death metal classico in vista di una versione prog-jazz infernale e i Cynic spingevano questa situazione ancora più in là con l’immortale – e mai ripetuto – “Focus”.

Rimanendo in territorio death i FF decidono di percorrere una strada in astrazione totale dal resto delle suddette band andando a pescare in un universo che futuristico lo era davvero. “Soul Of A New Machine” è alfiere di questa trasformazione: l’inusuale natura del disco è una mutazione genetica che chiama in causa a più riprese Ministry, KMFDM e Skinny Puppy mischiandone le caratteristiche con una base hyper thrash che già mostrava un approccio totalmente nuovo. Il che fece tremare non poche gambe.

Se l’idea è stuzzicante la messa in atto è ancora acerba e il risultato, per quanto delizioso, non è ancora sufficiente a rendere il suono della fabbrica della paura un punto di partenza cruciale per il sound a venire. I mondi plasmati dagli strumenti e in via ancor più importante dai testi di Bell chiamano in causa la fantascienza più esplicitamente anticonformista e feroce, un connubio importante tra le dissertazioni dell’anima e di una società marcescente, paure e spiragli di vuoto/luce create da William Gibson e Philip K. Dick in un unico vortice spassionatamente cibernetico.

Ed è proprio nel cyberpunk più decadente che prende forma “Demanufacture”, metallico fiore all’occhiello dei losangelini. Cazares non è propriamente all’industrial che volge occhi ed attenzione bensì alla club culture techno che stava sorgendo proprio in quegli anni – o meglio, che stava evolvendosi in qualcosa di altro – e più in particolare verso creature quali The Prodigy e Meat Beat Manifesto. La volontà di ibridare le chitarre distruttive figlie del metal più estremo nell’era rave e dell’hardcore techno più bieca e ferale porta il chitarrista a rivolgersi a Rhys Fulber, parte della macchina Front Line Assembly, che già quest’idea la masticavano industrialmente parlando. I due si incrociano nel vero senso della parola: mentre Dino vuole rendere la sua creazione più sintentica, Fulber si immerge nel metallo fuso. Lo scontrarsi di questi due mondi darà vita proprio al suono unico dell’album in questione.

Ad ispirare ulteriormente la ferocia meccanica delle liriche ivi racchiuse è ascrivibile il fatto che la sala prove del gruppo si trovava all’epoca in una zona di L.A dedita allo scontro tra gang, cosa non inusuale nemmeno ora, ma che negli anni ’90 raggiungeva un apice che aveva avuto una ventina d’anni per incancrenirsi senza posa. Trovarsi ogni giorno con la fronte imperlata dal sudore mentre fuori dalla finestra si consuma il degrado più totale di un’umanità ai bordi fa la differenza e dà i natali a passi come “My gun will be you angel of mercy” contenuto nella title track. Un agglomerato di cemento senziente e devastazione ultra sonica.

La batteria di Herrera perde ogni contatto di umanità e connessione con la natura intrinseca dello strumento e degenera in una serie di beat algidi ma miracolosamente senza perdere un’oncia del suo groove unico. Pezzi come New Breed portano alla luce la nuova attitudine techno dei FF donando nuovo smalto alla composizione. Mentre il sostrato strumentale perde umanità la voce di Bell si fa più malleabile: le parti in growl prendono le distanze da molti colleghi mentre quelle melodiche si fanno via via più digeribili e definite come ben dimostrano le tinte acri di Replica o nella splendida cover di Dog Day Sunrise degli Head Of David di Justin “Godflesh” Broadrick. Le chitarre tritano l’asfalto e si inchiodano a colpi di maglio e pistoni sulla blasfema Pisschrist – titolo che fa evidentemente riferimento all’opera di Andres Serrano – ma che grazie a Bell ottiene un aspetto inevitabilmente diverso e prepotentemente melodico.

Di fatto “Demanufacture” è stata l’ipertecnologica pietra miliare che ha dato scintilla – assieme a “Roots” – al nu metal con tutti i suoi pregi e i suoi difetti ma anche con il suo modo di contrapporsi allo schifo imperante di una società ai limiti della sanità mentale. Come un wipeout impietoso questo scalino evolutivo ha finito per fagocitare i Fear Factory, impigliati in un loop da cui non riescono ad uscire. D’altronde è un destino che troppe volte tocca i rivoluzionari.

P.s: Io li ringrazio anche perché grazie a loro ho scoperto Dave McKean, che ha curato l’artwork del disco rendendolo ulteriormente prezioso. Scusate se è poco.

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