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Margareth – Run

2018 - Macaco Records
rock / psych / indie

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Tracklist

  1. Run
  2. Closer
  3. Black Walls
  4. The Coldest Winter
  5. Treeline

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Ho sempre immaginato i famigerati Margareth, invece che margherite, come dei girasoli alti e dinoccolati, scartando pure la somiglianza con i papaveri. Partendo da questa esposizione floreale si può capire benissimo che le febbrili (da ebbrezza primaverile) songs dei ragazzi mestrini invitino ad entrare in un luogo, un paese meraviglioso, forse sul genere di quello della piccola, poi grande, Alice, che per l’appunto non è Margareth, giusto perché una margherita non è un girasole né un papavero.

E lo sapeva bene Gianni Rodari, il quale, musicato da Endrigo-Bacalov, asseriva l’importanza del fiore e delle piccole cose intorno a noi che a ben guardarle svelano i segreti della natura; acciocché un povero topolino comprato ad una fiera… Ma questa è un’altra storia che non servirà più a parlarci di “Run“, il loro ultimo sforzo creativo.

Va da sé che le cinque liriche appartenenti all’EP in questione ispirino il connubio con la natura, merito dell’aria folk che spira congiunta con altro, cioè, le fantastiche alterazioni psichedeliche ed elettroniche esperite. La matrice Beatlesiana-McCartneyana non tralascia l’effusioni di stile che vezzeggiano l’ascoltatore generando un compìto lavorìo. Infondono temperate melodie, distinguono arrangiamenti deliziosamente elaborati, innestano seduzioni strumentali e suggeriscono tonalità oppiaceo-vitaminiche: un senso transitorio (Run) segue tale corso scuotendo via la polvere dagli arabeschi intessuti sui tappeti diventati volanti dopo lo scrollìo necessario innescato dall’arrivo della nouvelle stagione pre-estiva, che fa letteralmente spalancare le finestre.

La stagione più bella mediata nelle manifestazioni di rinascita generale a cui l’umano volentieri si abbandona in leggerezza, rapito dallo scirocco che ne solleva il corpo iniziandolo a godere di calda estasi. Allo stesso modo, i Margareth mediano sui suoni e sul rigoglìo esplosivo attenuando quel senso di detonante completezza meravigliosa che, instaurata una concreta sensazione di compagnia (Closer) con l’ascoltatore, si presenzia nell’immedesimazione cosciente, e quasi gaudente, attraverso il processo riequilibrante della musica impartita.

La superficiale tenue melanconia affianca la gioiosa e densa estasi compiendo il miracolo proprio penetrando le minute cose eluse ad una prima distratta occhiata, che sono invece la sezione ritmica di una grande orchestra, collante e impalcatura di tutto l’ecosistema circadiano.
E questo è tanto, sapere sapientemente mixare con mano esperta tutte le forze partecipative in campo aperto, ostiche (The Coldest Winter)  e concomitanti (Treeline), che devono al prodotto finito, ossia quel quadro geniale che da solo dilata di colore ogni stanza dello spirito, il privilegio d’essere appeso ai Black Walls di ciascuno di noi.

Estraniata definitivamente dal nostrale, la band, a cinque anni di distanza dall’ottimo “Flowers EP“, getta la zavorra giù dalla propria mongolfiera dipinta di e-Psycho-Folk-Rock svettando sulle alte cime dell’originalità pop, attirando l’attenzione di coloro che sapranno cercarla tra le bianche nuvole dell’informe libertà.

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