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La grande madre delle bestie: una retrospettiva sugli ZU

Ho scoperto dell’esistenza degli Zu il 28 aprile del 2006. Quella sera io e un manipolo di miei amici stringevamo in mano il biglietto per il concerto della Fantômas Melvins Big Band che si sarebbe tenuto al Teatro della Concordia di Venaria Reale. Ignoravo se ci sarebbe stato o meno qualcuno abbastanza malato da poter aprire a quel circo di matti composto da Mike Patton, Trevor Dunn, Buzz Osborne, Dave Lombardo, Dale Crover e Kevin Rutmanis.

La risposta è arrivata quando, una volta entrati, – high al punto giusto – siamo stati investiti da un’onda anomala di suoni contorti sorretti da una potenza ritmica esacerbante. Il bassista di quell’anomalo trio composto da sé, da un sax baritono e da una batteria, tutti perfettamente allineati, stava in quel momento piantando un cacciavite in uno dei pick up del suo strumento. Il fascino che esercitò sul di me allora bassista fu estremo. Mi girai verso l’altro 4 cordato del gruppo e gli chiesi “ma questi chi cazzo sono?” – sempre a bocca rigorosamente aperta quindi suonò tipo “’a ‘etti ‘hi ‘hazzo ‘ono?” – e lui mi rispose “credo si chiamino Zu e sono italiani”. Italiani. Qualche anno prima mi ero imbattuto per puro caso negli Ephel Duath e ora questi. Non potevo chiedere di meglio.

A fine concerto mi fiondai al banchetto e comprai due magliette di rito (una per band) e andando totalmente a senso acquistai “The Way Of The Animal Powers”. La copertina era splendida: quel disegno a tratto nero e feroce su sfondo bianco mi ammaliò, con le mani dell’uomo a stringere non si sa se benevolmente o con pessime intenzioni un serpente. Una volta scartato in fretta e furia e aperto il libretto il disegno si ampliava e mostrava un crossovering tra regno animale e street art che mi mandò in fretta ai matti. E poi c’era quel titolo: Tom Araya Is Our Elvis. Tom Araya, capite? Per il me allora ventenne questo mischiarsi di mondi non era del tutto inusitato – ero già da anni avvezzo al regno zorniano e al suo mai celato amore per il grind – ma quei tre su quel palco avevano qualcosa di più. Erano altrove. E citavano gli Slayer.

Il pezzo apre ad un mondo fatto di mostri dalle sembianze metaumane che si tramutano presto in sregolate distruzioni del rumore, cunicoli dalle radici doom e jazz scomposto e quasi irriconoscibile. In una parola sola: indecifrabili. E se debbo aggiungerne un’altra: inclassificabili. Luca T. Mai, Massimo Pupillo e Jacopo Battaglia divennero ben presto, per quella frangia della nostra generazione che stava manifestando l’intenzione di suonare al di fuori dagli schemi, un faro a cui guardare. Nessuna delle band con cui condividevo qualcosa – e nemmeno la mia se è per questo – ha mai provato a fare “quello che facevano gli Zu”, però la forza che ci davano i loro live – a quel punto li seguivamo ovunque appena si avvicinavano a noi – e l’idea di poter andare contro tutto e tutti senza però rendercene effettivamente conto erano qualcosa di inderogabilmente fisso in tutti noi. Avevano radicato un’idea senza usare le parole.

Mi feci un culo così per trovare ed ascoltare quanto più possibile di quel trio incredibile poiché, come già detto dal collega Andrea Vecchio, reperire informazioni e musica in provincia era un cazzo di casino. Oltretutto non potevo aspettare di incrociare di nuovo la strada della band per poter ascoltare gli altri dischi da essa prodotti. Mi lanciai dunque su una quantità incredibile di treni e all’interno di altrettanti negozi e ottenni ciò che cercavo. Scoprii in fretta – e con estremo stupore – che sul primo album “Bromio” ad accompagnare i tre c’era nientemeno che Roy Paci. Per me al tempo Paci era quello delle hit ska Yettaboom e Toda Joia Toda Beleza e nulla più. Che cazzo stava accadendo?

Gli Zu pervertivano il senso di noise e math rock infrangendo le delimitazioni avant jazz passando per il cortile dell’hardcore punk senza badare ai bambini tatuati che vi giocavano a palla intenti a parlarsi addosso. Ogni pezzo era al suo posto nella sua sregolata ferocia semi-improv: Paci e Mai si involano in unisono devastanti, si ricorrono, si cedono il posto l’un l’altro mentre l’arcigno basso di Pupillo e il feroce tribalismo di Battaglia guardano con intensità alle dicotomie create altrove da Lally e Canty. È proprio in brani come Xenitis che l’ingrediente post-hc fa risaltare il piatto bruciando il palato. Così come le mattanze bungleiane di Testa di cane o le smattate slabbrate di Zu Circus spingono il tutto oltre, con gli strumenti incastrati in loop (il)logici ad altissimo voltaggio.

Un’altra cosa che devo al trio è l’avermi fatto scoprire mondi che altrimenti avrei faticato a tirare fuori dalle rovine di una musica alt sempre più alla deriva. Realtà lontane che persino sui giornali in odore di “alternatività” non arrivavano nemmeno per scherzo e che avrebbero formato il mio gusto in fatto di obliquità. Partendo dal presupposto che quando voltai “Igneo” leggendo che a produrlo fu nientemeno che Steve Albini mi presi un coccolone (avrei scoperto poco più tardi che gli Uzeda avevano già incontrato la strada di mr. Big Black anni prima), e come bonus questo album era dedicato ai The Ex. Il suono mutuato è proprio quello del collettivo anarchico olandese con un’aggiunta di disintegrazione del linguaggio da far spavento: secco come un deserto di lame, il basso è ormai diventato un treno distorto, il sax (qui e là condiviso con Ken Vandermark, e qui un altro grazie è doveroso) uno spaventoso contraltare e la batteria un fiume in piena impietoso e strabordante. I suoni cesellati con maestria da Albini di sposano alla perfezione con le impetuose scorribande della band e qui nascono le rifrazioni ritmiche marchio di fabbrica del combo romano.

Il passaggio dei tre sui sentieri altri è mutevole sebbene composto: più sono le collaborazioni più il sound del gruppo si fa compatto e unico, quasi immutabile. Una forza che appartiene a pochi al mondo, figurarsi in Italia, quella di farsi influenzare delimitando sempre la propria identità rendendola riconoscibile tra mille, soprattutto in situazioni non-vocali, in una realtà sempre più legata alla voce, al testo, all’espressione sotto forma di “slogan” l’ideale di “musica pura” – ergo strumentale – viene qui reso tema principe di un linguaggio in continua e sempre più nevrastenica evoluzione. Come ci dissero in un’intervista di ben 15 anni fa “Zu è una repubblica di tre persone”. Potrebbe bastare.

Le suddette collaborazioni si moltiplicano dunque e danno vita a diversificazioni sempre più intense del suono. Che siano le entità distopiche elettrospastiche del DJ nipponico Nobukazu Takemura che danno vita all’alienazione sci-fi/tribal-sludge metal di “Identification With The Enemy: A Key To The Underworld”, o le mortificazioni noise-jazz grind e sempre più ferocemente math di “How To Raise An Ox” assieme a Mats “The Thing” Gustafsson (ristampato lo scorso 23 maggio da Trost Records) la Repubblica del Rumore di Zu riesce sempre a cambiare le regole del gioco con la fermezza di chi è estremamente conscio del proprio essere unico.

Il biennio 2008/2009 è stato l’apice del mio amore per questa creatura. Partiti in quarta con uno split con l’allora magnifico Teatro degli Orrori – e culminato in uno spettacolo che ho avuto la fortuna di vedere all’Hiroshima di Torino a “tre voci” con le due band e in apertura l’illusione di cambiamento portata dalle neonate Luci della Centrale Elettrica. Il 10” è una batosta noise rock di rara ferocia e classe, con le band combinate a darsi battaglia creando una matassa elettrica di pura violenza. Fallo! è nervoso ottundente con Capovilla sugli scudi in assetto da guerra, Nostalgia un nome omen, suite di quasi nove minuti che lotta tra silenzi ed esplosioni emotive.

E sempre all’ombra della Città della Mole Antonelliana un altro mostro si fa spazio tra le rovine e porta il nome di Zu Patton Orchestra. Lo show a cui assistiamo io e altri fortunati è qualcosa di estremo da ogni punto di vista. Mike Patton nella sua immensità obliqua si staglia gigantesco sui tappeti atroci dei tre fino a creare qualcosa di nuovo le cui propaggini si perpetreranno nel capolavoro “finale” della formazione con Battaglia ossia “Carboniferous”. Ci vorrebbe un capitolo a parte solo per questo album poiché racchiude non solo i featuring più pregiati di sempre – per l’appunto Patton e King Buzzo dei Melvins il che mi riporta a quella fatidica serata di anni prima – ma anche il culmine di un sound messo a punto dal vivo e qui trasposto, anche grazie alla produzione di Favero, in chiave perfetta ed irraggiungibile. Un lavoro spesso come una montagna di carbone che riporta in una sola matassa lavica tutto l’amore per la materia metallica infestata da influenze elettroniche ed estreme e una dialettica strumentale unica ed irripetibile.

Un altro capitolo a parte sarebbe da spendere sull’estetica con cui gli Zu hanno marchiato la quasi totalità dei propri lavori grazie allo splendore sotto forma di street art di Alessandro”Scarful”Maida che con dovizia e follia intrinseche ha dato forma agli incubi psico-somatici del trio attraverso immagini che di umano avevano ben poco, ma che di certo non si possono dimenticare. La forza di un grande progetto per me passa anche attraverso la sua forma grafica: se riesci a renderti indimenticabile sia agli occhi che alle orecchie puoi dire di aver compiuto qualcosa di indelebile.

Dalla defezione di Jacopo in poi la strada della band ha intrapreso strade ancor nuove, come dimostrano i nuovi “Cortar Todo”, disco che dimostra tutto l’amore per il grind più sequenziale, e la lettera d’amore ai Coil intitolata “Jhator” che fa approdare Mai e Pupillo sull’etichetta House Of Mythology. E proprio per la label di casa Ulver è in arrivo un nuovo gioiello da inserire nel collier dei romani, ossia ZU93, nato dalla collaborazione con nientemeno che sua maestà David Tibet – e con l’apporto del sempre presente Stefano Pilia.

Vien difficile concludere una sì lunga lettera d’amore – perché di questo si tratta – ma va fatto. Ci provo: gli Zu sono stati l’onda lunga di un maremoto alternativo a tutto che ancora non si è infranta sugli scogli del silenzio sotterraneo di un’Italia che è andata via via dimenticandosi di poter molto. Senza dire una parola hanno riempito le vacuità di uno spazio rarefatto e ghiacciato fondendosi col mondo e tornando indietro sempre integri e proiettati verso un futuro ancora ignoto. Per quanto mi riguarda senza di loro avrei perso molto di quanto ho scoperto in questi ultimi 12 anni, in primis l’idea di non adagiarsi mai, qualsiasi sia l’ambiente che si vuole scuotere. Dunque li ringrazio qui, davanti a tutti.

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