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“California” über alles: l’opera omnia dei Mr. Bungle

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Come abbiano fatto i Mr. Bungle in 15 anni di vita e in tre album nel giro di 8 anni a percorrere sì tanta strada in termini puramente musicali rimarrà da qui a sempre un mistero. Certo, un combo comprendente Trey Spruance, Trevor Dunn, Mike Patton e Clinton “Bär” McKinnon – senza estromettere il folle Danny Heifetz – proprio un mistero e/o un segreto non può essere. Un ensemble di menti infernali, vulcaniche e impossibili da imbrigliare e definire come non ne sono più nate dopo il 1999, l’anno di “California”.

Mr. bungle

California” a conti fatti non è un album. “California” è un mostro mutaforma, si evolve in poco tempo ed estende i propri tentacoli nell’altrove, un posto-non-posto il cui accesso è vietato a chiunque tranne che ai Bungle stessi. Quando crossover non basta più per definire qualcosa si sa di essere finiti nella famigerata Dimensione-X, e qui non è sufficiente per delinearne il contenuto. “California” è un disco che – come i suoi predecessori – è uscito per major, in un momento in cui questi giganti della discografia ancora potevano permettersi un suicidio economico sulla scia della sola presenza di un membro di un gruppo, ma che comunque fa un determinato effetto, soprattutto a ripensarci oggi. La Warner scommise sulla follia e noi ringraziamo. La stessa Warner che fece slittare l’uscita del disco per non pestare i piedi ai Red Hot Chili Peppers e al loro “Californication”, un album che è l’ultimo – mediocre – vagito di un gruppo che avrebbe potuto tanto ma. Un gruppo il cui leader Anthony Kiedis nutriva una profonda invidia – possiamo dirlo – nei confronti dell’altro leader, tanto da far saltare date su date alla sua band, una band esponenzialmente più piccola ma che valeva almeno dieci volte tanto.

California” che si presenta al mondo con uno degli artwork più brutti mai visti, ma che è di per sé perfetto, in antitesi totale e in perfetta armonia con ciò che contiene. Il team al lavoro invece è di quelli da proverbiale leccata di baffi: Billy Anderson – un uomo estremo con nel curriculum Sleep, Brutal Truth, Crisis, Jawbreaker, Swans, Unsane e via così – al banco mix oltre a Eyvind Kang e Carla Kihlstedt – sì, lei, Sleepytime Gorilla Museum – agli archi affiancati da un notevole stuolo orchestrale a fare giocoforza nella matassa compositiva mai come ora matura e (dis)ordinata.

California” che nasce dalle macerie della sanità mentale perduta di “Disco Volante” e ne è summa e contraltare, evoluzione di suoni che arrivano da ovunque al di fuori e nel profondo, con sulle spalle la fine dei Faith No More e l’inizio dei Fantômas, progetti avant-jazz (Trio-Convulsant) e medioriente metallizzato (Secret Chiefs 3) ma che mantiene tutto fuori (ancora?) e tutto dentro (cosa?). Esplode e si incatena a se stesso, diviene e si autodistrugge rigenerando(si).

California” che racchiude Retrovertigo, la ballad definitiva mandata in filodiffusione in un manicomio color caramella e che oggi Patton ripropone con Uri Caine al piano ma che al tempo i FNM si sarebbero sognati la notte – e quelli di ballad ne han scritte e di sontuose. Ma anche Pink Cigarette è una ballata, elettrica, sixties, il magico punto d’incontro tra Celentano e Morricone lungo un boulevard losangelino decadente d’amor fluido. Se poi qualcuno vi chiedesse mai “oh, ma musicalmente negli anni ’90 cos’è successo?” voi dovreste tirare fuori il vostro fedele boombox e sparargli dritto sul volto Ars Moriendi e tutto gli sarebbe chiaro e l’insert magreb-medioriental-esteuropeo-dance piantato in mezzo alla canzone è il bonus definitivo.

Se Link Wray balla nel disagio intubato e feroce di The Air-Conditioned Nightmare tra beduini meccanici su dune di carbone (che svettano sotto il cielo di Dune di The Holy Filament) il male dei meccanicismi di memoria devoiana si danno il cinque su Golem II: The Bionic Vapour Boy e i computer cominciano a scoppiare e palesare sugli schermi amichetti a 8-Bit che si muovono in modo scomposto in pieno trip pop.

C’è tutto in “California”, e quando dico tutto intendo proprio TUTTO. È l’epitaffio perfetto di un secolo di psicosi e brutalità, cambiamenti e trasformazioni e sontuosa introduzione ad un millennio di luci ed ombre. È anche la fine dei Bungle ed il motivo tale per cui un loro ritorno sulle scene sarebbe inutile, superfluo, ridondante – anche se molti di voi vorrebbero. Hanno detto tutto quello che dovevano dire e che nessun altro è riuscito a mettere per iscritto. Anche se ci han provato, poveri loro.

Goodbye sober days

The years grew wings and flew away

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