Accostarsi a Carlos Giffoni è un po’ come decidere di sostenere una tesi su uno di quegli autori oscuri e misconosciuti cui nessuno bada, nella speranza di sbrigare la pratica in poco tempo e meno sforzo. Per poi scoprire una costellazione di rimandi e collegamenti insospettabile e bellissima, che richiede ben altri attenzione e impegno rispetto a quanto preventivato. Vacanze rovinate, ok, ma quanto godimento.
Sì perché lo schivo Giffoni ha alle spalle un corpus niente male, con collaborazioni a cinque stelle: scorrendo le decine di album in cui appare il suo nome su Discogs, si scorgono album ed Ep con gente come Jim O’Rourke, Merzbow, Lee Ranaldo, Nels Cline, Thurston Moore, Prurient e un lungo ecc. Il nostro è peraltro patron delle sigle No Fun Fest e No Fun Productions, rispettivamente una tre giorni di festival dedicato al noise e alle musiche “altre”, e l’etichetta cui fa riferimento, valvola di sfogo per veterani come quelli della suddetta lista e palestra di vita per virgulti già più che svezzati come Oneohtrix Point Never.
Sorprende, quindi, scoprire come questo venezuelano quarantenne ormai newyorkese d’adozione, già agente provocatore in combo sperimentali come i Monotract, abbia da poco pubblicato quello che è appena il suo quarto album in carriera (a sei anni di distanza dal precedente). Ma se la meraviglia che abbiamo nelle orecchie è il prezzo da pagare per l’attesa e per una produzione così rarefatta, ben vengano i periodi di riflessione e le distrazioni. Perché, se l’elettronica analogica ha un posto nella vostra vita, allora questo potrebbe essere uno dei vostri dischi dell’anno.
Vains Face, che funge un po’ da intro, imposta già il tono del racconto: una trama bicorde di rintocchi di campanelle, con relativo bordone di basso, che, con un po’ di phaser e di delay in più, si sarebbe trasformata in un campioncino di minimalismo, ma che invece mantiene intatto il suo fascino monolitico senza dover ricorrere a facili ammicchi. The Desert incupisce la palette, estendendosi come un’oscura macchia d’olio su delle steppe uraliche, con cambi di accordi minimi e misurati: la colonna sonora perfetta per accompagnare un tramonto su Dune. Con Erase The World arriva il primo, vero affondo, il tocco di classe. Un oscillatore intona un accordo unico, ossessivo, sul quale un tricordo di violini dilaniati e dissonanti martoria i timpani, come unghie su una lavagna. Finisse qui sarebbe solo un intermezzo spiazzante, se non fosse che un pad percussivo anch’esso imperterrito si va facendo strada sotto la coltre di rumore, raschiandone frammenti e smontandone a poco a poco l’assurda costruzione, infine rimanendo solo a portare avanti un ritmo ottuso e insensato. Bellissimo.
L’intermezzo intuito arriva davvero con Hands, anche se con un’intercessione melodica che fa un po’ tirare il fiato. Su We Pay The Price sono i pad a dettare la melodia, astrusa e dissonante quanto si vuole, con gli oscillatori a ripetere il pattern e addirittura un “solo”, scusate la bestemmia, a base di svisature di synth e smanettamenti vari. Stesso copione su Stop Breathing, che però si dirama in direzioni più fantasiose e rigogliose, e si concede per di più il lusso del ballabile e non sfigurerebbe in qualche festival, ma con una conclusione sinistra che fa mettere in guardia. Con l’ironico titolo I Can Change si torna a citare l’incipit, mentre la conclusiva Sun Rain mette fine al viaggio con richiami ai Darkstar, ma senza la forma canzone e col piglio minimalista ed essenziale che pervade l’intero album.
Sapere che il disco è un concept su una ragazza con poteri telecinetici desiderosa di scavare nel proprio criptico passato non influisce più di tanto poi sul potere visionario e suggestivo dell’album, ma certamente avrà il suo peso nelle installazioni dal vivo che l’artista realizzerà. Di certo, l’album frastorna e trascende come pochi al solo ascolto, e l’assenza di interferenze visive aiuta a concentrarsi e a perdersi in quest’incantesimo bellissimo. Cerchiatelo bene in rosso.