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Khôrada – Salt

2018 - Prophecy Productions
post metal

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Tracklist

1. Edeste
2. Seasons Of Salt
3. Water Rights
4. Glacial Gold
5. Augustus
6. Wave State
7. Ossify


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Sopperire alla fine – e dunque alla mancanza – di una band che ha influenzato e sferzato tutta un’ondata black/avant metal come gli Agalloch non dev’essere cosa facile. Scrollarsi di dosso il lavoro precedentemente costruito, per di più un lavoro di esplorazione e innovazione improntata sulla ricerca di radici passate anche lontane dalla propria cultura di base, rende il tutto possibilmente più complesso. Aesop Dekker, Jason Walton e Don Anderson però si sono presi il loro tempo – nemmeno poco – per rimettere assieme le idee, liberarsi dell’ingombrante ombra di John Haughm (attualmente in forze nel suo nuovo e poco interessante progetto Pillorian) e spingersi ulteriormente oltre.

Per far ciò, e farlo con tutti i crismi del caso, i tre hanno unito le forze con un altro campione dell’avanguardia pesante ovvero Aaron Gregory, i cui Giant Squid sono attualmente a bocce ferme. Il risultato è Khôrada, un progetto che più lo giro e rigiro e meno mi ci raccapezzo. Detta così sembra qualcosa di poco lusinghiero e invece il mio intento è proprio tutt’altro. Il grado di creatività presente in questo “Salt” è così alto e di così difficile classificazione che riprende le sensazioni di stupore ai primi ascolti degli Agalloch e le porta ad un livello superiore. Il lavoro di debutto del quartetto è un atto di astratto-cubismo che non finisce mai di aprirsi a nuove strade e verso l’ignoto. Suona nuovo, fresco e strabiliante. Eppure al primo ascolto del “singolo” apripista Ossify null’altro che la noia mi attanagliarono le membra, nei suoi 11 minuti di metal all’apparenza sconclusionato.

Cosa mi ha fatto cambiare idea? La prospettiva. “Salt” è uno di quei dischi che non possono essere ascoltati a più riprese ma che va osservato nella sua completezza poiché le strutture classicamente futuribili risulterebbero altrimenti fuorvianti. Quello che i Khôrada vogliono sottolineare è un mondo in balìa della più spaventosa confusione di un’epoca che per uno statunitense dotato di intelletto significa difficoltà nel vivere nel regno di Donald Trump e che apre a scenari ignoti, le sicurezze fatte a pezzi e quei pochi brandelli di civiltà ulteriormente sparsi in un mare di incertezza. Così i 7 brani risentono di questa influenza e si compongono da sé in crocevia continui, quasi a costruire un concept non più basato sulle liriche bensì sulla scrittura strumentale.

E infatti concatenando tutti i brani anche Ossify va al suo posto. Quello in cui ci imbattiamo nell’ascolto è puro e semplice post-metal, in cui il suffisso post- riprende la sua accezione di superamento di genere e non una pedissequa riproposizione della ritrita formula fac simile Isis-Russian Circles, che ha ormai fatto il suo tempo, bensì un fiume che si dirama in ogni direzione per incontrarsi ancora e ancora nel suo tragitto verso il mare. La virulenza death/black di brani come Season Of Salt, intesa come mero spunto in blast beat contenuti, lascia spazio a voluminose quantità di melodia rese ancor più ferree e nocive dall’uso delle doppie voci – una stentorea e marcata che si sovrappone ad una più eterea e volatile. L’elevato minutaggio dei singoli brani è giustificato dal puzzle sonoro che va ricomponendosi in movimento.

Le maglie larghe nell’armatura di canzoni come Edeste lasciano l’ascoltatore abbandonato ad uno sconforto emotivo sorretto da un elemento decisamente di spicco: la tromba. Memore di certi lavori del trombettista Cuong Vu trovo che l’uso dello strumento in sospensione e combutta col post più liquido possa grandi cose, e così i multipli fiati sulla scudisciata sludge del finale di Wave State confermano la mia impressione. I multistrati melodici di Glacial Gold, il cui incipit lirico lascia spiazzati, sono la firma di un lavoro che nell’imperfezione e nell’emotività annegano il proprio essere, e a far la differenza qui sono gli archi che si insinuano tra le chitarre lanciando uno sguardo in tralice verso un mondo lontano e in rovina divorato da deserti e miraggi cosmici.

Così nel tempo e con il moltiplicarsi degli ascolti si ha l’impressione che “Salt” trovi una forma dove i confini sono banditi. La sensazione è quella che la sua pesantezza possa scoraggiare ma la realtà ha mille finali e altrettanti viaggi e le vie si spezzano di minuto in minuto trovando ogni volta un’impronta a parte dall’altra e tutto ciò finisce per catturare l’attenzione in uno stato di ipnosi. E qui i minuti di ascolto sono circa 55, fate dunque i vostri calcoli. Parlavo di creatività, ricordate?

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