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SONOIO – Fine

2018 - Dais Records
synth pop / industrial

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Tracklist

1. I Don't Know
2. Left
3. Thanks For Calling
4. Pieces
5. Vitamin D
6. Bad Habit
7. Under The Sea
8. What's Before
9. I Don't Know (Coda)


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Alessandro Cortini non ha perso tempo e a meno di un anno da “AVANTI” toglie dal ghiaccio il suo progetto nominato SONOIO. Eppure di anni da quando Thanks For Calling, il singolo apripista di “Fine”, è stato inizialmente pubblicato ne sono passati ben 4. Non pochi, considerando i tempi che corrono. La gestazione del disco è stata dunque tutt’altro che semplice.

Fine” segna anche il termine – a quanto pare – della strada percorsa da SONOIO con all’attivo tre soli dischi. A conti fatti si può parlare tranquillamente di canto del cigno perché l’album che oggi Dais Records – vera e propria miniera d’oro su queste coordinate – dà alle stampe è a dir poco eccellente. Messe da parte le velleità rumoreggianti del succitato disco dello scorso anno, Cortini torna a fare sue melodie e architetture sonore ascrivibili allo scintillante mondo plastificato – in accezione più che positiva – del synth pop anni ’80. Null’affatto rigide sono infatti le composizioni ad opera del tastierista in forze ai NIN, risultano melliflue ed organiche, investite di un songwriting di altissimo livello e mature oltre ogni possibile dubbio.

Proprio Thanks For Calling si fa portavoce di questa forza intrinseca: striscia deep houseggiante in toni medi, la voce leggiadra e con quel tocco di sensualità obliqua, per poi aprirsi in un’esplosione melodica facendosi più raggelante ma non meno epica, coi synth a librarsi nell’aria. Le scheletriche strutture minimal di Left, I Don’t Know e Vitamin D troneggiano su gelidi deserti sintetici portando a fondo dimostrando come la vocalità fragile di Cortini sia perno di tutto il lavoro. Inutile dire che i rimandi alla creatura reznoriana si facciano sentire – pur non dando l’idea di copiarne né modus né intenti – sulla liquida Pieces in cui piano, rumorismi di sorta ed echi dallo spazio profondo si fanno alfieri di una deliziosa sensazione di solitudine e lontananza. Il delicato nervosismo dell’industrial in punta di piedi della spettralmente umana Under The Sea è la ciliegina sulla torta, impreziosita di un lirismo che a me riporta alla mente – ora la sparo grossa – nientemeno che Greg Dulli.

C’è qualcosa di più nel velluto elettronico racchiuso nelle spire di “Fine”, qualcosa di ineluttabile che si riflette nell’immobilismo vissuto immortalato in copertina, come di una stanza lasciata senza fretta, in un momento di lucida follia e delirio interiore che si esprime solo (auto)concludendosi e chiudendo un cerchio. Qual che sia non è dato sapersi. Un finale amabilmente sospeso.

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